IL FANTASTICO MONDO di Maria PACE
- Filastrocche
- Racconti e Fiabe
- Creature fantastiche e mitologiche:
Ninfe - Sirene - Ondine
Muse - Erinni
**************************
FILASTROCCHE
E' arrivata la Befana

"E' tornata la Befana
a cavallo di una scopa
vola senza far rumore
nella notte nera nera.
Sulle spalle ha tanti pacchi
coi regali per i bambini:
bambole, treni e biscottini
Ma di più lei sa donare:
una gioia che nessuno può scordare."
FILASTROCCA della BEFANA
La Befana vien di notte
con le scarpe tutte rotte
con le toppe allasottana
Viva Viva la Befana.
La Befana vien di notte
attraversa tutti letti
porta giochi e confetti
nonostante le scarpe rotte

FILASTROCCA del CHICCO di GRANO
Chiccolino, dove sei?
Sotto terra, non lo sai?
E là sotto non fai nulla?
Dormo dentro la mia culla.
Dormi sempre, ma perché
Voglio crescere come te
E se tanto crescerai, chiccolino che farai?
Una spiga metterò e tanrti chicchi ti darò
Creature fantastiche

LA BEFANA
La Befana è tipica figura del folklore italiano legata alle festività natalizie.
Le sue origini sono molte antiche. Risalgono a tradizioni magiche-rituali pagane legate alla fine dell'Anno Solare (solstizio d'inverso) ed all'inizio dell'Anno Lunare, finite poi col fondersi in elementi folkloristici e cristiani.
Nell'antichità, durante la dodicesima notte del solstizio d'inverno, si celebrava il Rito della morte dell'Anno Vecchio e della nascita del Nuovo Anno. Si credeva che in quelle dodici notti, spiriti femminili e Divinità Minori legate alla Madre Natura, guidati dalla Dea Lunare Diana,volassero sui campi seminati per propiziarsi il futuro raccolto.
Quei rituali, però, furono severamente condannati dalla Chiesa, ma non si riuscì a cancellarli dalla memoria popolare e finirono pian piano per convogliare ed inglobarsi (soprattutto durante il Medio Evo) in nuove pratiche e riti che condussero alla istituzione ed alla figura della Befana.
Questa, sotto l'aspetto di un fantoccio rappresentava il Vecchio Anno da distruggere e bruciare, per assumere, attraverso riti propiziatori, l'aspetto del Nuovo Anno, giovane e rigoglioso.
Il suo aspetto, perciò, era quello di una vecchia brutta e cenciosa, gobba e sgraziata, dal lungo mento aguzzo e dal naso adunco.
La Befana arriva volando su una scopa attraverso il cielo e si posa sui tetti per entrare nelle case attraverso il camino, simbolo dell'antico focolare, luogo sacro e punto di congiunzione fra cielo e casa.
Nella tradizione moderna la Befana è legata alla leggenda dei Re Magi in viaggio verso la capanna di Betlemme.
La leggenda narra che i Magi, perso l'orientamento, abbiano bussato alla casa della Befana chiedendo indicazioni per giungere a Betlemme e invitandola ad unirsi al gruppo.
La Befana indicò la strada, ma si rifiutò di seguirli.
Subito dopo, però, pentitasi, salì su una scopa e volò in cielo cercando di raggiungerli.
Non riuscendovi, decise di fermarsi in ogni casa a chiedere notizie ed a lasciare un dono, nella speranza di incontrare il Divino Bambinello. E da più di 2000 anni continua a farlo.
I suoi doni, però, non sono uguali per tutti: giochi e dolcetti per i bambini buoni ed ubbidienti e carbone per quelli disubbienti e monelli... mah!
La Befana è tipica figura del folklore italiano legata alle festività natalizie.
Le sue origini sono molte antiche. Risalgono a tradizioni magiche-rituali pagane legate alla fine dell'Anno Solare (solstizio d'inverso) ed all'inizio dell'Anno Lunare, finite poi col fondersi in elementi folkloristici e cristiani.
Nell'antichità, durante la dodicesima notte del solstizio d'inverno, si celebrava il Rito della morte dell'Anno Vecchio e della nascita del Nuovo Anno. Si credeva che in quelle dodici notti, spiriti femminili e Divinità Minori legate alla Madre Natura, guidati dalla Dea Lunare Diana,volassero sui campi seminati per propiziarsi il futuro raccolto.
Quei rituali, però, furono severamente condannati dalla Chiesa, ma non si riuscì a cancellarli dalla memoria popolare e finirono pian piano per convogliare ed inglobarsi (soprattutto durante il Medio Evo) in nuove pratiche e riti che condussero alla istituzione ed alla figura della Befana.
Questa, sotto l'aspetto di un fantoccio rappresentava il Vecchio Anno da distruggere e bruciare, per assumere, attraverso riti propiziatori, l'aspetto del Nuovo Anno, giovane e rigoglioso.
Il suo aspetto, perciò, era quello di una vecchia brutta e cenciosa, gobba e sgraziata, dal lungo mento aguzzo e dal naso adunco.
La Befana arriva volando su una scopa attraverso il cielo e si posa sui tetti per entrare nelle case attraverso il camino, simbolo dell'antico focolare, luogo sacro e punto di congiunzione fra cielo e casa.
Nella tradizione moderna la Befana è legata alla leggenda dei Re Magi in viaggio verso la capanna di Betlemme.
La leggenda narra che i Magi, perso l'orientamento, abbiano bussato alla casa della Befana chiedendo indicazioni per giungere a Betlemme e invitandola ad unirsi al gruppo.
La Befana indicò la strada, ma si rifiutò di seguirli.
Subito dopo, però, pentitasi, salì su una scopa e volò in cielo cercando di raggiungerli.
Non riuscendovi, decise di fermarsi in ogni casa a chiedere notizie ed a lasciare un dono, nella speranza di incontrare il Divino Bambinello. E da più di 2000 anni continua a farlo.
I suoi doni, però, non sono uguali per tutti: giochi e dolcetti per i bambini buoni ed ubbidienti e carbone per quelli disubbienti e monelli... mah!
RACCONTI E FIABE
Muschio e Agrifoglio - Fiabe di Natale
INDICE
- LA BAMBOLA
- LA CIOCCA RIBELLE
- L'ASTRONAVE MAGICA
- IO L MIO AMICO DARRIK
- IL PICCOLO PESCATORE
- IL CUCCHIAINO D'ARGENTO
- IL PONY
- LA BAMBOLA
- LA CIOCCA RIBELLE
- L'ASTRONAVE MAGICA
- IO L MIO AMICO DARRIK
- IL PICCOLO PESCATORE
- IL CUCCHIAINO D'ARGENTO
- IL PONY
LA BAMBOLA

Un pino faceva bella mostra di sé lungo il viale del giardino della casa di Emma Vittoria, una bella bambina allegra e vivace, con due occhi carichi di splendore e verdi come il colore di quel pino; il babbo lo aveva fatto piantare il giorno in cui era nata, proprio quattro anni prima.
C’era stata gran festa, quel pomeriggio, con giochi, dolci, coriandoli, bevande e zucchero filato. Il babbo aveva perfino fatto arrivare un clown dal Circo accampato alla periferia della città.
Il pino, addobbato con nastri e filamenti luccicanti, sembrava un albero di Natale.
Il pomeriggio era passato in un baleno e già le amichette e gli amichetti di Emma, l’uno dopo l’altro, avevano lasciato
la casa.
Era dicembre e faceva freddo; era arrivata anche la neve, che aveva imbiancato ogni cosa come con panna montata.
Emma Vittoria, però, era ancora tutta eccitata e, soprattutto, soddisfatta dei regali ricevuti che erano stati
veramente belli e numerosi.
Uno, particolarmente gradito, era arrivato con la zia Maria: una bambola vestita da ballerina, con un
vaporoso tutù di tulle bianco proprio come il suo. Sì, perché Emma Vittoria da qualche mese frequentava una Scuola di Danza Classica con eccellenti risultati.
Approfittando della presenza della zia Maria, Stefy e Dario, la mamma e il babbo della piccola, si offrirono di
accompagnare a casa uno dei piccoli ospiti della loro bambina e lasciarono la casa.
Rimasta da sola con la zia, Emma prima cominciò con un’interminabile “filastrocca dei perché”, poi la pregò di
raccontarle una favola.
La zia Maria non si fece pregare; le piaceva raccontare e ad Emma piaceva ascoltare.
Sedettero davanti al camino acceso e scoppiettante: la zia su una poltroncina ed Emma, accoccolata su un cuscino ai
suoi piedi.
La piccola Emma Vittoria stringeva fra le braccia la sua bambola; con quel candido tutù, la ghirlanda argentata sul
capo, il mantello di seta blu sulle spalle e le scarpette senza punta, sembrava proprio una bambina.
La zia cominciò a raccontare:
“Nei tempi dei tempi che furono, vivevano in una grande città, due ragazzi di nome Djoser e Mosè. Il posto
preferito per le loro marachelle era il mercato…”
Nel camino, intanto, la legna scoppiettava allegra e le scintille salivano verso l’alto come piccole stelle brillanti; zia e nipotina, l’una di fronte all’altra, erano davvero felici e contente.
“Vuoi vedere – continuava il racconto - come trasformo questa collana di schegge di pietre in una collana d’oro?
Disse un giorno il piccolo Mosè all’amico, mostrandogli una collanina di pietre…”
La zia s’interruppe.
Emma la vide appoggiare il capo alla spalliera della poltrona e socchiudere gli occhi; alla piccola parve che
volesse addormentarsi e allora la sollecitò:
“Avanti, zia. Racconta. Chi era Mosé? Era un piccolo mago capace di fare magie come il clown della mia festa?
Racconta, ti prego. Racconta.”
La zia riaprì gli occhi, sorrise e riprese:
“Oh, no! Mosè era solo un bambino assai ingegnoso, capace di fare agli amici scherzi molto divertenti… - s’interruppe
ancora e richiuse nuovamente gli occhi, ma li riaprì subito – La piccola canaglia trascinò l’amico Djoser alla ricerca di qualcuno a cui fare uno scherzetto divertente…” riprese, ma s’interruppe ancora: gli occhi chiusi, il capo reclinato, un dolce sorriso sulle labbra.
“Ed ora? – la invitò la piccola Emma, ma anche lei sentiva una gran voglia di chiudere gli occhi – Racconta, zia…
racconta… come fece quella pi…piccola ca…canaglia…”
“La… la collana di pietre…” continuò la zia poi, per la terza volta s’interruppe e questa volta la piccola non la sollecitò più a proseguire: un dolce sopore e una profonda sonnolenza avevano preso anche lei.
Emma Vittoria posò il capo sul grembo della zia Maria e smise di fare domande; chiuse gli occhi e si abbandonò a
quello strano torpore.
La zia aveva smesso di raccontare e le sue mani, abbandonate in grembo, non accarezzavano più il capo della piccola.
Nel camino, intanto, la legna era diventata brace e la brace andava consumando, assumendo una tinta sempre più
scura e minacciosa; un penetrante odore, dolciastro e amaro insieme, aveva cominciato a saturare la stanza.
*****
Nel frattempo, nella villetta accanto, la casa della piccola ospite di Emma, si stava conversando amabilmente; tra un pasticcino, un pettegolezzo e una coca-cola, il tempo scorreva veloce e inavvertito.
Qualcuno bussò alla porta.
La padrona di casa andò ad aprire e si trovò di fronte una bambina con sulle spalle un bel mantello blu ricoperto di neve.
“Entra. Entra, piccina. – la donna si fece da parte per lasciarla entrare – Chi sei? Hai bisogno di qualcosa?”
“Sono l’amica di Emma Vittoria e cerco il suo babbo e la sua mamma.” rispose la piccola sconosciuta.
“Ma certo, cara. Entra… I genitori di Emma sono in salotto… ma la piccola Emma non è con te?”
“No, signora. La mia amica Emma Vittoria è a casa con zia Maria, ma bisogna correre subito da loro perché sono
in grave pericolo.”
“Santo Cielo! – esclamò la donna – E’ accaduto qualcosa?”
Richiamati dalle loro voci, i genitori di Emma si precipitarono sulla porta d’ingresso.
“Che cosa è successo a Emma Vittoria e alla zia Maria? - cominciarono a tempestare di domande la piccola - E tu, chi
sei? Non ti ho mai vista prima.”
“Sono Laetitia-Angiolina, la nuova amica di Emma e sono corsa ad avvertirvi che la mia amica e la zia stanno molto
male.”
“Oh, mio Dio! Che cosa è successo alla mia bambina?” si allarmò la mamma di Emma.
“Sembrano addormentate. – spiegò la piccola, liberandosi del mantello per scuotersi la neve di dosso e mostrandosi,
agli sguardi stupiti di tutti, nel suo candido e spumeggiante tutù da ballerina - La legna… la legna, bruciando ha liberato uno strano odore e tutta la stanza ne è piena… tutta la stanza…”
“Presto… presto! – esclamò il babbo, che aveva afferrato la gravità della situazione. Senza altri indugi, si lanciò di fuori, lungo il sentiero che portava a casa – Le esalazione di gas prodotto dalla legna – andava ripetendo - … la legna del camino..”
La mamma di Emma si gettò addosso in tutta fretta il cappotto e seguì il marito sotto la neve che fioccava sempre più abbondante.
Seguiti dagli amici, raggiunsero la loro casa.
Trovarono Emma Vittoria e zia Maria accanto al camino non più scoppiettante, ma scuro di cenere.
Parevano addormentate, proprio come aveva detto la piccola sconosciuta. In realtà, erano svenute, ma rinvennero
subito, appena furono apprestate loro le cure e le attenzioni necessarie.
“Dov’è Laetitia Angiolina? - la mamma di Emma si guardò intorno alla ricerca della piccola sconosciuta - Voglio
ringraziarla. Non oso immaginare quello che sarebbe potuto accadere se non ci avesse avvertito.”
“Chi è questa nuova amichetta della nostra Emma? – anche il babbo la cercò – Ma dove sarà andata? Era tutta bagnata,
povera piccola. Potrebbe prendersi un malanno.”
“Di chi state parlando?” domandò Emma sollevando la testa dal divano del soggiorno su cui era stata adagiata insieme
alla zia.
“Della tua amica Laetitia Angiolina. - risposero tutti in coro – E’ lei che ci ha avvertito di quanto stava accadendo.”
“Ah! La mia amica Laetitia Angiolina... –Emma Vittoria riempì con un lungo respiro la pausa che seguì, poi -
E’ lì, accanto al fuoco.” Continuò e con la manina sollevata indicò la bambola seduta per terra accanto al camino.
“E’ Laetitia Angiolina. – ripeté – E’ la bambola che mi ha regalato zia Maria. E’ lei la mia nuova amica.”
Si girarono tutti a guardare in direzione del camino.
Il volto della bambola era lo stesso della bambina venuta a dare l’allarme; anche le scarpine senza punta erano le
stesse ed erano bagnate e il mantello blu era ancora ricoperto di qualche pagliuzza di neve.
Mamma Stefy scoppiò a piangere.
“Oh, piccola mia! Era Laetitia Angiolina… Angiolina… il tuo Angelo Custode. Era il tuo Angelo Custode che ha preso le sembianze della tua bambola.”
La ciocca Ribelle

Martina era una bambina davvero bella: occhi di un nero carbone, splendidi e brillanti come stelle in cielo, visetto adorabile, boccuccia sorridente e capelli neri.
Proprio i capelli erano il suo vanto: ciocche lunghe e morbide. Eppure, ve n’era una a cui non stava bene proprio niente, tanto che le compagne avevano finito per appiopparle il nome di “piccola ribelle”.
Ed a ben ragione, poiché, se Martina pettinava o spazzolava i capelli verso destra, quella se ne andava a sinistra; se li portava davanti, lei correva all’indietro.
Come se non bastasse, incitava alla ribellione anche le compagne.
“Perché dobbiamo rimanere sempre nello stesso posto?” cominciò a brontolare un giorno.
“Dove potresti andare? – rispose una compagna– E’ questo il tuo posto!”
“Voi lo credete davvero?” replicò quella.
“Ma certo! Di cosa ti lamenti? Ogni volta che Martina va a spasso ci porta con sé.”
“Bella prodezza! – la rimbeccò – La piccola Martina non può fare altrimenti. Potrebbe, forse, lasciarci in casa?”
“E già! Non lo potrebbe fare!”
“E’ per questo che ci porta con sé, stupida. Solo perché non può liberarsi di noi. Ma io non sono stupida come voi e
come gli alberi.”
“Gli alberi?... Cosa c’entrano gli alberi? E perché gli alberi sarebbero stupidi?” replicò l’altra.
“Gli alberi non sono, forse, i capelli della Terra? – l’amica accennò di sì col capo – Proprio come noi, che siamo
attaccati alla testa della piccola Martina, neppure gli alberi possono lasciare il loro posto. Se ne stanno lì, senza far
niente…”
“Stai dicendo delle sciocchezze. – l’interruppe la compagna – Non dovresti lamentarti, ma essere contenta perché la
nostra padroncina, la piccola Martina, ci tratta con cura e amore.”
“Già! – tornò a brontolare la “piccola ribelle” – Con pettine e spazzola!”
“Ci vogliono pettine e spazzola, per farci belle!” replicò l’altra.
“Io non voglio essere toccata da spazzole né pettini e non voglio essere bella. Voglio solamente andare via da qui.”
“Stai zitta! – intervenne una terza ciocca –Non vedi che Martina ha preparato l’occorrente per uno shampoo?”
Era proprio quello che la piccola ribelle odiava più di ogni altra cosa, perciò non partecipò per nulla all’allegro chiacchierio e alle risatine di gioia delle compagne che nuotavano nel piccolo lago profumato preparato dalla padroncina.
Poiché era una giornata soleggiata e tiepida, nonostante il Natale fosse vicino, Martina aprì la finestra e lasciò
tutte le ciocche libere di asciugarsi alla carezza del sole.
Un soffio di vento giunse fin sul davanzale per accarezzarle; la ciocca ne approfittò subito ed attirò la sua attenzione.
“Ehi, tu! Non mi porteresti con te?” chiese.
“Vuoi venire con me? – fece il soffio – E perché?”
“Come perché? Perché sono stanca di stare legata qui. Voglio andare via e vedere altri posti. Io non sono come le
mie sciocche compagne, che si accontentano di una carezza e una spazzolata.”
“Sei una tosta, eh! – sorrise il soffio; ci pensò un attimo, poi disse – Salta in groppa. Ti porto con me.”
La piccola ciocca non se lo fece ripetere e un attimo dopo sedeva in groppa al soffio, lontano dalla finestra e
invano inseguita dal richiamo delle compagne che la sollecitavano a tornare indietro.
Il soffio di vento si alzò nel cielo e la ciocca, tutta felice, guardava sotto di sé le strade brulicanti di macchine e
pedoni, i monumenti, i giardini e i tetti dei palazzi.
“Quanta meraviglia!” non finiva di ripetere.
Lasciarono la città; attraversarono pianure e monti, fiumi e laghi: una continua scoperta per la piccola ciocca.
“Guarda… guarda laggiù… - diceva indicando ogni cosa – Che cos’è quello specchio azzurro laggiù?”
“E’ un lago.” spiegava il soffio.
“E tutte quelle cose strane?”
“Sono casolari… e quello laggiù è un ruscello… Ne incontreremo di molto grandi ed impetuosi: si chiamano fiumi.”
Passarono anche sulla bocca incandescente di un vulcano; varcarono il mare e raggiunsero nuove terre.
La piccola ciocca notò che l’aria andava facendosi tiepida, poi sempre più calda; d’improvviso, un violento
vortice d’aria la fece quasi cadere.
“Attento! – gridò – Stavo quasi per cadere.”
“Non preoccuparti. Con me sei al sicuro.”
La ciocca tornò a sorridere, ma smise subito:
“Devo darti una notizia che forse non ti farà piacere. – stava, infatti, dicendo il soffio – Il nostro viaggio finisce qui!”
“Come? Che significa che il viaggio finisce qui?” protestò quella.
“Significa che devo tornare indietro. –spiegò il vento – Io sono Continentale e non posso spingermi oltre.”
“Vuoi dire che sei un vento continentale?... Oh, che peccato! Proprio ora che stavo divertendomi tanto… Non
vorrei davvero tornare indietro.”
“Una cosa si potrebbe fare.” replicò Continentale.
“Cioè?”
“L’urto che prima ti ha quasi sbalzata via era il mio incontro con Tropicale… E’ il modo di salutarci di noi Venti.”
“Oh.Oh!... avete uno strano modo di salutarvi, voi Venti, ma… che si potrebbe fare?”
“Potremmo chiedere a Tropicale se è disposto a portarti con sé.”
“Sarebbe magnifico!...- si entusiasmò la ciocca - Questo Tropicale è simpatico come te?”
“Molto di più! Lui viene dal Nord. Viene dal Tropico del Cancro… Sta attenta, però… quello preferisce farsi
chiamare Boreale, per non farsi confondere col suo gemello, che viene dal Sud e come nome ha scelto Australe.”
“Capisco! Lo chiamerò come vuole lui.”
Il vento Tropicale accolse con entusiasmo l’idea di portare in giro la piccola ciocca e questa saltò svelta da
una groppa all’altra e continuò il suo viaggio.
L’aria, intanto, si faceva sempre più calda; la piccola ribelle, però, non si lamentava mai: quello che vedeva
dall’alto era fantastico: fiumi larghi quanto piccoli mari, strani animali… ricordò di averne visti alcuni quando la piccola Martina guardava la televisione.
Era felice. Era così felice da non avvertire stanchezza né disagio, nonostante il caldo si facesse sempre più intenso; quasi soffocante.
“Stiamo per separarci, a meno che tu non voglia tornare indietro. – la sorprese d’un tratto Boreale, che durante tutto il tragitto era stato molto taciturno, al contrario di Continentale – Siamo giunti all’Equatore, dove mi attende Equatoriale.”
“Voglio proseguire.” disse caparbia la ciocca.
La consegna al vento Equatoriale avvenne nell’identica maniera di prima e la ciocca si ritrovò ben presto bagnata fino alla radice.
Era bagnata, pensò, come quando Martina le faceva lo shampoo, solo che in quelle occasioni, profumava di rose e aloe e
non di sudore.
Nonostante ciò, era felice lo stesso; felice, ma con un senso di stanchezza e di oppressione… Per fortuna passò presto.
Con il vento del Tropico del Capricorno, a cui venne affidata da Equatoriale, ripassò sopra foreste e pianure, monti e valli, fiumi e laghi, città e villaggi, mari e deserti. Incontrarono anche pioggia e grandine; affrontarono nebbia e freddo, caldo e umidità.
In verità, mano a mano che proseguiva, veniva sballottata da un Vento all’altro; ormai non le chiedevano più se volesse, oppure no, proseguire: Zefiro, Scirocco, Libeccio, Garbino e altri ancora, se la passavano l’un l’altro con urti più o meno violenti.
Dopo un po’, un urto più violento e gelido.
“E’ il mio amico. – la rassicurò chi la stava trasportando; la ciocca non conosceva nemmeno il suo nome – E’ Polare. Siamo al Polo Sud.”
Un brivido la percorse tutta: Polare fischiava come un treno in fuga.
La piccola ribelle aveva freddo, molto freddo, ma non osava confessarlo. Cominciò a tremare e gelare tutta. Era intirizzita.
Con sgomento si accorse di aver perduto quella morbidezza e quel colore nero che tutti le ammiravano: era diventata
rigida e bianca. Non riuscì a dire altro che:
“Ho… un po’ di fre…freddo. Co…come vorrei tornare dalla piccola Ma…martina, così bella e gentile.”
Il vento la guardò e dovette impietosirsi perché disse:
“Ti porterò da re Eolo. Deciderà lui cosa fare.”
“Chi… chi è questo ve…vento?”
“Non è un vento. – sorrise l’altro – Eolo è il Re dei Venti.”
Eolo era proprio il Re dei Venti e la piccola ribelle si trovò al suo cospetto, solo pochi minuti più tardi.
Re Eolo l’ascoltò e decise di rimandarla indietro, non prima di averla fatta sbrinare e riposare.
“Hai visto il mondo, ma poteva costarti caro. Non si deve mai affrontare l’ignoto con leggerezza.” le disse nel salutarla, poi, bonariamente, le dette una lisciatina, se la pose sul palmo della mano e con un soffio potentissimo la spinse via.
In men che non si dica, la ciocca ribelle si ritrovò a volare sopra la città da dove era partita. Vide che era completamente coperta di bianco ed era tutta vestita a festa: alberi carichi di palline, fiocchi e nastri colorati; strade e vetrine addobbate con luci e scritte augurali.
“E’ Natale! – esclamò con gioia – Sono tornata per Natale!”
Non le fu difficile trovare la casa di Martina; un soffio di vento la depose sul davanzale, ma la finestra era chiusa.
Era Natale, però, ed a Natale tutto è possibile: la piccola Martina, attirata da uno zampognaro, aprì la finestra e s’affacciò a guardare di sotto e la ciocca ribelle ne approfittò per confondersi con le sorelle, che l’accolsero gioiose. Tra sorrisi e sospiri, spiegò loro che il mondo era bello, ma che senza Martina non si poteva proprio stare e che da quel momento non sarebbe stata più una ciocca ribelle, ma la più docile fra tutte.
E così fu
L'astronave magica

L'ASTRONAVE MAGICA
Dario era un bellissimo bambino di cinque anni; occhi azzurri, capelli scuri e un carattere allegro e sognatore. Da grande voleva fare l'ingegnere aero-spaziale perché amava il cielo, gli astri, gli aerei, ma soprattutto le astronavi.
Inventiva ed intelligenza non gli mancavano e neppure una bella dose di fantasia.
Nei suoi giochi c'era sempre un tocco di estro ed originalità, come la volta in cui costruì nel garage del suo papà un "Vulcano" seguendo le azzardate spiegazioni di un programma televisivo.
Tutto ciò, se da una parte li inorgogliva, dall'altra preoccupava tanto i suoi genitori.
"Questo figliolo - soleva ripetere la mamma - Un giorno o l'altro si caccerà nei guai."
"Ma no! - la rassicurava il babbo - Quand'anche gli accadesse qualcosa, Dario saprebbe trarsene d'impaggio... ad ogni modo, speriamo non gli succeda mai niente."
Natale era passato e la Befana era già salita sulla sua magica scopa per portare ai bimbi doni e carbone. Le strade della città erano vestite a festa e così le vetrine e gli alberi, piccoli e grandi, sulle piazze, nei giardini e sui balconi.
Come in tutte le case, anche in quella di Dario si parlava di regali; soprattutto della scelta.
Per Dario, però, era facile: non c'erano dubbi sui suoi gusti.
"Voglio fargli una bella sorpresa." aveva detto il babbo e la mamma aveva subito capito. Anche Dario, però, aveva capito ed era riuscito perfino a scovare il posto dove il dono era stato nascosto nell'attesa della Befana: la soffitta. Un buon nascondiglio, per mamma e babbo, ma non sufficientemente segreto per il nostro piccolo segugio.
Appena scoperta quella nuova presenza in soffitta, quell'enorme pacco più alto di lui, Dario si dette da fare per scoprirne il contenuto.
In verità, quello non era il solo pacco custodito lassù; ve n'era un altro, alto poco più di mezzo metro, ricoperto di carta luccicante e nastri colorati, ma Dario lo ignorò, preferendo l'altro, privo di ornamenti, ma gigantesco.
Se lo aspettava, ma ne restò ugualmente meravigliato: era proprio un'astronave, di latta, argentata con luci rosse ed alta due metri e più.
C'era un'apertura; Dario l'aprì ed entrò. Si poteva stare in piedi.
Il piccolo si guardò intorno incuriosito. Sulla parete di fronte c'era un'infinità di leve e pulsanti. Tirò subito quella che doveva essere la leva di comando, poiché assomigliava a quella del suo modellino di reattore ricevuto in regalo per il compleanno.
Con un sibilo acuto, l'astronave si mosse, si alzò e, sfondando il tetto di casa, decollò verso l'alto.
"Povero me!... Che cosa ho combinato! - si preoccupò - Che cosa dirà il babbo quando si accorgerà di questo grosso guaio?... Per un mese non mi farà giocare con l'astronave.... Oh! Che meraviglia!... - esclamò infine - Ma... ma dove sono finito?"
Si trovava in cielo sopra le nuvole e in mezzo alle stelle che si facevano sempre più luminose e dimenticò ben presto il guaio combinato al tetto di casa.
Una stella gli passò vicino.
Era piccola, luminosa e tutta d'oro; intorno a sé aveva un alone di luce e si trascinava dietro una stupenfa coda dai colori iridescenti e brillanti, come non li avrebbe nemmeno immaginati.
Al contrario delle altre, questa si accostava alla Terra invece che starsene lontana.
Dario pensò di inseguirla e solo quando si accorse di sorvolare il deserto, capì che quella era la Stella Cometa con il compito di guidare i tre Magi alla capanna del Bambin Gesù.
Guardò di sotto e li vide. Vide tre cammelli sontuosaente bardati e un corteo di gente ed animali salire e scendere lungo dune sabbiose.
Quand'ecco accadere qualcosa di veramente inatteso: la Cometa stava, come suol dirsi, perdendo la rotta.
"Ma no! Che cosa fai? - gridò - Quella non è la strada per Betlemme... Ma dove stai andando? Dove stai portando i Re Magi?... Così non arriveranno mai a destinazione! Oh!... Che cosa posso fare?"
Il piccolo era davvero preoccupato. Ma lo restò solo per un attimo. Glielo ripetevano tutti che era un pozzo di immaginazione. Quello era, dunque, il momento di usarla.
Un'idea, infatti, gli brillò in testa.
"Potrei imitare la scia che gli aerei supersonici lasciano dietro di loro quando solcano il cielo." pensò e facendo seguire l'atto alle parole, schiacciò tutte le leve e tutti i pulsanti che aveva davanti a sé nel quadro di comando.
L'astronave si impennò come un cavallo, si alzò, si abbassò, partì, tornò, rallentò, accelerò.
"Accidenti! - gridava Dario ad ogni urto - Ma quale sarà quello giusto?"
Infine, un sibilo acuto precedette la calma che ne seguì e bel buio del cielo stellato, la sua astronave, con la bella coda luminosa, sembrava davvero la Stella Cometa.
Dario si abbassò di quota, fino a poche centinaia di metri dal suolo, proprio sulla testa della lunga carovana, che guidò, sana e salva, fino a Betlemme.
Assolto il compito, ebbe un sospiro:
"Oh! Devo tornare a casa, adesso. La mamma mi starà cercando. Sta per scoccar la mezzanotte ed a casa stanno per aprire i doni... Oh! - tornò a sospirare - Il babbo non mi punirà per quanto ho cobinato al tetto di casa, quando saprà che sono stato io a guidare i Magi alla capanna di Betlemme."
Con un po' di rammarico il piccolo puntò decisamente verso terra e in men che non si dica,
l'astronave lo riportò nella soffitta di casa.
La mezzanotte stava per scoccare e i genitori erano davvero alla sua ricerca.
Lo trovarono in soffitta sdraiato per terra ed addormentato; tra le braccia stringeva il pacco ricoperto di nastri colorati e carta luccicante.
"Il mio piccino! - la mamma lo sollevò da terra - E' ancora debole e frastornato... la caduta dalla bicicletta ha fatto una brutta bua al mio tesoro, che ora è tanto, tanto stanco."
"Sai che cosa c'é qui dentro?" domandò il babbo, facendogli una carezza.
"Certo che lo so! - rispose Dario - C'è un'astronave d'argento... un'astronave magica."
"Ma che bravo! Come hai fatto ad indovinare?" gli sorrisero, mamma e babbo.
Dario si guardò intorno alla ricerca dell'astronave, quella che lo aveva condotto a Betlemme.
Non c'era.
"Lo so! - rispose - Perché con quella ho guidato i Magi alla capanna di Betlemme." spiegò.
Mamma e babbo si scambiarono un'occhiata.
"Scotta. - disse la mamma - Ha la febbre alta e sta delirando."
"Non mi punirai per il tetto... Vero, babbo? - disse Dario -Senza la mia astronave d'argento con le luci rosse, i Magi chissà dove sarebbero, adesso... io li ho guidati fino a Betlemme e... - alzò gli occhi verso il soffitto - Ma hai già fatto riparare il tetto, babbo?" domandò.
Il padre l'assecondò con un gesto del capo, poi:
"Adesso la mamma ti porta nel tuo lettino. Apriremo più tardi i regali. - indi, rivolta alla moglie - Come avrà fatto ad indovinare che nel pacco c'era proprio un'astronave di latta d'argento con guarnizioni rosse? ... La confezione è intatta."
"Non loso! Questo bambino è un prodigio di intuizione!"
Dario chiuse gli occhi. Era davvero stanco, ma più tardi avrebbe raccontato la sua meravigliosa avventura... adesso aveva solo voglia di dormire.
Il mio amico Darrik

Ludovico era davvero contento; saltellava e canticchiava felice intorno all'albero di Natale addobbato con nastri colorati e palline luccicanti.
Ludovico era un bambino di cinque anni. Un bellissimo bambino, dalla simpaticissima zazzera sulla fronte, gli occhioni verde-azzurri carichi di splendore e uno sguardo vivace e biricchino che conquistava all'istante. E una vocazione per l'avventura, che alimentava con una vivida fantasia.
Fu proprio la fantasia ad incantarlo davanti ad una di quelle piccole sfere colorate: era la prima volta che ne vedeva una così luccicante, tale da abbagliargli lo sguardo.
In verità, non pareva davvero una sfera come le altre. Le altre, con all'interno angioletti, renne e Babbo Natale con la slitta, le conosceva perfettamente; vi aveva addobbato l'albero anche l'anno precedente.
Ludovico era certo che questa, così particolarmente luccicante, la vedeva per la prima volta.
"Da dove salta fuori?" pensò a voce alta, osservandola attentamente.
All'interno della sfera, vide una pupazzetto con una tutina argentata; stava seduto su una sedia girevole davanti ad un tavolino e sopra il tavolino poggiava una minuscola quadrante.
Lui aveva tanti pupazzetti, gli eroi dei fumetti, ma nessuno che gli assomigliasse anche solo vagamente.
Continuò a fissarlo ed ebbe l'impressione che quello sollevasse un braccino, come per salutare.
Si stropicciò gli occhi, ma quando li riaprì, la sorpresa fu ancora maggiore: nella sfera s'era aperta una porticina e il pupazzetto stava in piedi nel vano ed agitava entrambe le braccia.
"Oh!" esclamò, sporgedosi in avanti; ma anche quello si sporse e e saltò fuori.
Ludovico si ritrasse, più stupito che spaventato.
"Oh!..." ripeté.
Il ragazzino in miniatura, perché proprio di un ragazzino si trattava, benché alto non più di dieci dodici centimentri volò... proprio così, volò per aria ed andò ad atterrare proprio sulla sua mano, che egli teso in avanti.
Ludovico lo squadrò attentamente; una espressione di profondo stupore gli alterava il bel visetto.
L'esserino era molto grazioso: minuscolo, ma proporzionatissimo
Indossava una tutina argentata con stampato sul petto una lettera rossa. Precisamente una "D".
Aveva le manine guantate e un visetto carino e simpaticissimo, sotto una zazzera di un rosso fosforescente.
"Ehilà, terrestre! Salve!" salutò, in tono assolutamente cristallino.
"Sa..salve! - Ludovico rispose al saluto, ma subito domandò -Chi sei? Che cosa ci fai nella sfera colorata del mio albero di Natale? Chi..."
"Ehi... ehi, piano! - lo interruppe la minuscolo creatura - Non aggredirmi così! Una domanda per volta, terrestre."
"Terrestre? Perché mi chiami così? Io mi chiamo Ludovico. Tu, come ti chiami?"
"Io come mi chiamo?... Ah.ah.ah. - scoppiò a ridere quello - Vuoi prendermi in giro?"
"No! Ti ho chiesto solamente come ti chiami." rispose Ludovico.
"Ma io non mi chiamo affatto, piccolo terrestre gigante... Sono gli altri a chiamarmi." precisò.
"Spiritoso!" replicò Ludovico con accento un po' seccato.
"Io nnn sono spiritoso!" anche l'altro si risentì un poco.
"Va bene! Va bene! Come ti chiamano gli altri?"
"Mi chiamano Darrik. - rispose la minuscola creatura, accennando alla lettera che gli brillava sul petto - La mia formula di distinzione è Darrik. La tua è Ludovico?... Hai detto così?"
"E' quello che ho detto. E da dove vieni?"
"Da mlto lontano."
"Hhhh! - fece Ludovico, poi aggiunse - E' la prima volta che vedo un ragazzo così piccino."
"Non ti credo." cinguettò l'altro.
"Come sarebbe che non mi credi? Qui non esistono persone così piccine."
"Ma che cosa stai dicendo? L'ultima volta che sono stato sulla Terra, trecento anni del calendario di Okron..."
"Okron ? Che cosa sarebbe questo Okron?" lo interruppe Ludovico.
"E' il posto da dove vengo io. E' un pianeta di una galassia molto lontana da questa."
"Ho capito!.... Che cosa stavi dicendo?"
"Che l'ultima volta che sono stato sulla Terra ho fatto amicizia con delle persone davvero non più alte di me... qualche centimetro in più, fose... ma io sono soltanto un ragazzo."
"Mi stai prendendo in giro?"
"No davvero! Quei piccoli terrestri, davvero molto simpatici e sempre allegri, che vivono nei boschi e danzano, ballano sull'erba e i fiori..."
"Ma stai parlando degli gnomi. - lo interruppe per la seconda volta Ludovico - Stai parlando degli gnomi e delle fatine..."
"Hai visto che non volevo prenderti in giro e che..."
"Davvero li hai visti? - lo interruppe Ludovico per l'ennesima volta -Davvero hai visto fate e folletti?"
"Certo che sì! Come adesso vedo te... Perché ti meravigli?"
"Oh... beh! Ti spiegherò dopo, adesso dimmi, invece, come hai fatto ad arrivare fin qui."
"Con la mia astronave! - rispose candidamente la minuscola creatura, indicando la sfera luccicante attaccata all'albero - ... che è andata ad impigliarsi tra i rami del tuo albero."
"Oh! - esclamò Ludovico - L'ho attaccata io a quel ramo, ma tu, come hai fatto ad arrivare fino a casa mia?"
"L'astronave-madre con cui siamo arrivati sulal Terra è atterrata in un bosco non lontano da qui. - spiegò Darrik tirando sù col nasino - Io mi sono messo in giro con la mia navetta e sono arrivato qui."
"Oh! - ripeté Ludovico -E dimmi... siete tutti così piccini sul tuo pianeta? E... e vestite tutti in maniera così strana?"
"Perché?... Il tuo vestito non è forse strano?"
"E' un costume da Uomo-Ragno. - replicò Ludovico - Me l'hanno regalato a Natale. Anche questo mi hanno regalato... è il filo della Rete dell'Uomo-Ragno e mi diverto a lanciarlo sui rami. Vuoi vedere?"
"Sicuro!" acconsentì con immediato entusiasmo il piccolo Darrik.
Andarono sul balcone, Darrik sulla spalla di Ludovico, che domandò:
"Dove vuoi che lanci il filo della ragnatela?"
"Lancialo su quella striscia bianca nel cielo." rispose l'altro.
"E' la scia di un reattore. E' troppo in alto." fece osservare Ludovico.
"Cip... ciop... cipciop..." un passero sceso giù dal tetto volò intorno al capo di Ludovico e si fermò a mezz'aria, di fronte a Darrik che subito lo imitò:
"Ciocip... cipi...ciop..."
"Che fai? Cinguetti?" esclamò Ludovico.
"Il passerotto mi ha detto che quella nuvola è soffice come neve."
"Vuoi dire... vuoi dire che conosci il linguaggio dei passeri?"
"Certo! Noi di Okron comprendiamo qualunque linguaggio... di ogni essere vivente." aggiunse.
"Beati voi! Noi, qui sulla Terra, non ci comprendiamo nemmeno quando parliamo la stessa lingua..... E adesso che si fa?"
"Lancia il filo della ragnatela." suggerì Darrik.
Ludovico non se lo fece ripetere; lanciò il filo che salì così in alto da raggiungere la scia dell'aereo.
"E adesso su... "
Un attimo di esitazione, poi Ludovico seguì il minuscolo amico che già stava arrampicandosi lungo il filo della ragnatela; qualche veloce bracciata e... oplà, raggiunsero le nuvolette bianche della scia.
Erano davvero morbide come aveva detto il passero e spumeggianti come panna; i piedini affondavano come in un manto di soffice neve tiepida.
Non erano soli.
Qualcuno li aveva preceduti: un bimbo seminascosto in una candida tunica lunga fino ai piedi. Stava seduto su una di quelle nuvolette con aria aflfitta e sconsolata. I gomiti appoggiati alle ginocchia, il visetto appoggiato tra le mani, guardava fisso avanti a sé, mentre due grossi lacrimoni gli luccicavano sulle guance.
Era un angioletto.
Ludovico lo capì dalle alucce.
Veramente, di alucce ne aveva solo una; l'altra giaceva sulla superficie della nuvola, spezzata
"Salve!" fecero in coro i due amici.
"Salve!" rispose l'angioletto senza neppure sollevare il capo.
"Deve essere accaduto qualcosa di davvero catastrofico, se sei così sconsolato, figlio delle stelle." disse Darrik.
"La mia missione... - l'angioletto sollevò lo sguardo triste e sconsolato - Non potrò portare a termine la mia missione... la mia prima missione."
"La tua prima missione?" s'informò Ludovico.
"Fare da angelo custode ad un bimbo che sta per giungere alla sua nuova casa."
"Davvero? Che cosa é successo?"
"Ero assieme alla cicogna che lo trasportava nel suo pannolino, ma un cacciatore ci ha puntato contro il fucile... Io ho cercato di proteggerli, ma sono stato ferito ed ho dovuto fermarmi qui, su questa nuvola."
"Non devi preoccuparti. - cercò di consolarlo Ludovico - Qualcosa faremo."
"Che cosa si può fare?" domandò speranzoso l'angioletto.
"Dobbiamo pensarci. Tu che cosa suggerisci, Darrik?"
"Semplice! Potrebbe scendere con il filo della ragnatela." suggerì il piccolo extra-terrestre.
"Ci vuole un mezzo più veloce. - osservò l'angioletto - Guardate laggiù... La cicogna sta già per atterrare su quel tetto." indicò un tetto sotto di loro.
"Ma quello è il tetto della mia casa." esclamò sorpreso Ludovico.
"Oh bella! Aspettavi un fratellino e non lo sapevi?" esclamò Darrik.
"Una sorellina... - rettificò l'angioletto - Una bambina... ma come faccio ad arrivare laggiù? La mia ala é spezzata. Non posso volare."
"Niente paura... lo hai un nome?" chiese il minuscolo figlio delle stelle.
"Emmolo... il mio nome è Emmolo!"
"Bene, Emmolo!... Quello che devi fare è salire su quel raggio di sole... Guarda. Il raggio entra proprio nella casa di Ludovico. Prendi la tua aluccia e sali sul raggio, poi lasciati scivolare giù... quando avrai raggiunto terra, potrai sistemare la tua aluccia."
Senza indugiare, l'angioletto prese l'aluccia, montò sul raggio luminoso e si lasciò scivolare giù.
"Arrivederci!" salutò.
I due amici lo seguirono con lo sguardo fino a quando non fu che un puntino luminoso sotto di loro.
"E' proprio bello quassù! - l'attenzione di Ludovico tornò alle nuvole - Sembrano di panna montata."
"Oh! - esclamò con uno strano accento il piccolo extra-terrestre - Tu pensi alla panna montanta!... Guarda di fronte a noi..."
"C'é aria di temporale." esclamò Ludovico e non terminò la frase, ché un boato squassò l'aria.
"Il Sacro Askator ci aiuti! - proruppe spaventato Darrik - Questi boati mi gelano il fluido nelle vene."
"Il sangue... si dice il sangue. - lo corresse Ludovico - Ed è dei lampi che dovi aver paura, non dei tuoni... - Un secondo ed un terzo lampo; Darrik, intanto era scomparso sotto il colletto della sua camicia - Oh! Sembra di essere in mezzo ai fuochi d'artificio nella notte di Capodanno."
"Ma tu non hai paura? - il faccino di Darrik spuntò da sotto il colletto - Oh... Superkasterikh!"
"Eh?... Superkasterik? Che significa?"
"Significa... oh!... forse accipicchiolina, come dite voi. Ma tu non hai paura?"
"Certo. - rispose Ludovico - Ma il temporale si sta già allontanando e... guarda laggiù, Darrik!"
"Che cos'é?"
"E' l'arcobaleno."
"Oh! - Darrik spuntò completamente fuori del colletto - Mio fratello, che sulla terra é venuto molte volte, dice che l'arcobaleno è la pittura più bella di tutte le galassie... Non credevo fosse così. Chi l'ha dipinta?"
"Nessuno l'ha dipinta. - spiegò Ludovico - Sono i raggi del sole che cadendo sulle gocce d'acqua dopo la pioggia, creano quei colori e quella forma."
"Bellissimo! Perché non usiamo il filo della ragnatela per vederla più da vicino?"
"Buona idea."
Detto, fatto! Un attimo dopo, un bel ponte era a loro disposizione e lo attraversarono quasi di corsa per raggiungere l'arcobaleno.
Oh! Com'era bello, luminoso, colorato e fosforescente.
Con un salto Ludovico balzò sulla prima fascia colorata; era soffice e tiepida.
Si lasciarono scivolare lentamente, con risatine e gridolini di gioia. Più giù. Sempre più giù, ma d'improvviso, oplà, si trovarono scaraventati fuori della fascia colorata.
"Aiuto! Aiuto! Stiamo precipitando. Si salvi chi può!" urlò Ludovico, ma il piccolo Darrik si librò nell'aria e con il minuscolo braccio teso l'afferrò e lo sorresse per il colletto della camicia.
"Non so per quanto potrò reggerti... sei così grande e pesante." disse, quand'ecco una grossa ala tendersi verso di loro, pronta ad accoglierli ed una voce stridula sorprese Ludovico
"Aghpath... aghpat..."
"Che cosa ha detto?" domandò Ludovico al piccolo amico dopo che una doppia piroetta lo aveva fatto planare sulla groppa di uno splendido, favoloso grifo, metà aquila e metà leone.
"Ha detto: Salve!" spiegò Darrik, aggrappato alla sua spalla sinistra.
"Salve!" salutò Ludovico.
Il favoloso animale rispose con un altro incomprensibile verso.
"Che cosa ha detto?" tornò a chiedere Ludovico.
"Chiede dove andiamo."
"Digli che vorrei tornare a casa mia."
"Anch'io devo tornare all'astronave-madre... o il mio papà penserà che mi sia perso e al prossimo viaggio sulla Terra non mi lascerà più andare in giro da solo."
Il grifone puntò sul balcone di casa e subito dopo si levò in volo sbattendo le ali in segno di saluto; i due risposero agitando le braccia.
"Ti rivedrò ancora?" domandò Ludovico al piccolo Darrik, appena rientrati in casa.
"Tornerò fra duecento anni." rispose questi.
"Duecento anni? "
"Tranquillo! Nella mia galassia duecento anni sono molto brevi... brevissimi. Arrivederci. Adesso devo andare."
"Ciao, amico... così ci salutiamo, qui sulla Terra."
"Ciao, amico." cinguettò Darrik, librandosi nell'aria.
Ludovico ritirò il filo della ragnatela, lo avvolse ben bene ed entrò in sala per riporlo ai piedi dell'albero; la sfera luccicante non c'era più. Un vagito, però, provenne dalla canera della mamma, che era appena tornata dall'ospedale dove era andata di corsa con il babbo molte ore prima.
Si precipitò da quella parte e sulla soglia vide l'angioletto.
"Ciao, Emmolo... e la tua aluccia?" domandò.
"A posto. - rispose quello -Me l'ha riparata Leorik, il tuo angioletto custode."
"Davvero? E dove si trova adesso? Vorrei vederlo e parlargli"
"E' dietro di te, ma non puoi vederlo. Gli Angeli sono invisibili."
"E tu, allora? Perché ti fai vedere?"
"Appena sarò vicino alla tua sorellina, diventerò invisibile anch'io."
"Ma ci sarai? Non è che poi vai via anche tu ?"
"Ci sarò! Ci sarò!... E anche il tuo angelo sarà sempre con te..." lo rassicuro l'angioletto, ma appena raggiunta la soglia della camera della mamma, anch'egli scomparve.
"Leorik!... E' così che si chiama il mio Angelo Custode... Peccato che non possa vederlo né sentirlo!" pensò a voce alta, mentre anch'egli varcava la soglia della camera della mamma, ma gli parve, anzi, la sentì perfettamente, una carezza. Come di morbide ali che gli sfioravano il bel volto.
Ludovico era un bambino di cinque anni. Un bellissimo bambino, dalla simpaticissima zazzera sulla fronte, gli occhioni verde-azzurri carichi di splendore e uno sguardo vivace e biricchino che conquistava all'istante. E una vocazione per l'avventura, che alimentava con una vivida fantasia.
Fu proprio la fantasia ad incantarlo davanti ad una di quelle piccole sfere colorate: era la prima volta che ne vedeva una così luccicante, tale da abbagliargli lo sguardo.
In verità, non pareva davvero una sfera come le altre. Le altre, con all'interno angioletti, renne e Babbo Natale con la slitta, le conosceva perfettamente; vi aveva addobbato l'albero anche l'anno precedente.
Ludovico era certo che questa, così particolarmente luccicante, la vedeva per la prima volta.
"Da dove salta fuori?" pensò a voce alta, osservandola attentamente.
All'interno della sfera, vide una pupazzetto con una tutina argentata; stava seduto su una sedia girevole davanti ad un tavolino e sopra il tavolino poggiava una minuscola quadrante.
Lui aveva tanti pupazzetti, gli eroi dei fumetti, ma nessuno che gli assomigliasse anche solo vagamente.
Continuò a fissarlo ed ebbe l'impressione che quello sollevasse un braccino, come per salutare.
Si stropicciò gli occhi, ma quando li riaprì, la sorpresa fu ancora maggiore: nella sfera s'era aperta una porticina e il pupazzetto stava in piedi nel vano ed agitava entrambe le braccia.
"Oh!" esclamò, sporgedosi in avanti; ma anche quello si sporse e e saltò fuori.
Ludovico si ritrasse, più stupito che spaventato.
"Oh!..." ripeté.
Il ragazzino in miniatura, perché proprio di un ragazzino si trattava, benché alto non più di dieci dodici centimentri volò... proprio così, volò per aria ed andò ad atterrare proprio sulla sua mano, che egli teso in avanti.
Ludovico lo squadrò attentamente; una espressione di profondo stupore gli alterava il bel visetto.
L'esserino era molto grazioso: minuscolo, ma proporzionatissimo
Indossava una tutina argentata con stampato sul petto una lettera rossa. Precisamente una "D".
Aveva le manine guantate e un visetto carino e simpaticissimo, sotto una zazzera di un rosso fosforescente.
"Ehilà, terrestre! Salve!" salutò, in tono assolutamente cristallino.
"Sa..salve! - Ludovico rispose al saluto, ma subito domandò -Chi sei? Che cosa ci fai nella sfera colorata del mio albero di Natale? Chi..."
"Ehi... ehi, piano! - lo interruppe la minuscolo creatura - Non aggredirmi così! Una domanda per volta, terrestre."
"Terrestre? Perché mi chiami così? Io mi chiamo Ludovico. Tu, come ti chiami?"
"Io come mi chiamo?... Ah.ah.ah. - scoppiò a ridere quello - Vuoi prendermi in giro?"
"No! Ti ho chiesto solamente come ti chiami." rispose Ludovico.
"Ma io non mi chiamo affatto, piccolo terrestre gigante... Sono gli altri a chiamarmi." precisò.
"Spiritoso!" replicò Ludovico con accento un po' seccato.
"Io nnn sono spiritoso!" anche l'altro si risentì un poco.
"Va bene! Va bene! Come ti chiamano gli altri?"
"Mi chiamano Darrik. - rispose la minuscola creatura, accennando alla lettera che gli brillava sul petto - La mia formula di distinzione è Darrik. La tua è Ludovico?... Hai detto così?"
"E' quello che ho detto. E da dove vieni?"
"Da mlto lontano."
"Hhhh! - fece Ludovico, poi aggiunse - E' la prima volta che vedo un ragazzo così piccino."
"Non ti credo." cinguettò l'altro.
"Come sarebbe che non mi credi? Qui non esistono persone così piccine."
"Ma che cosa stai dicendo? L'ultima volta che sono stato sulla Terra, trecento anni del calendario di Okron..."
"Okron ? Che cosa sarebbe questo Okron?" lo interruppe Ludovico.
"E' il posto da dove vengo io. E' un pianeta di una galassia molto lontana da questa."
"Ho capito!.... Che cosa stavi dicendo?"
"Che l'ultima volta che sono stato sulla Terra ho fatto amicizia con delle persone davvero non più alte di me... qualche centimetro in più, fose... ma io sono soltanto un ragazzo."
"Mi stai prendendo in giro?"
"No davvero! Quei piccoli terrestri, davvero molto simpatici e sempre allegri, che vivono nei boschi e danzano, ballano sull'erba e i fiori..."
"Ma stai parlando degli gnomi. - lo interruppe per la seconda volta Ludovico - Stai parlando degli gnomi e delle fatine..."
"Hai visto che non volevo prenderti in giro e che..."
"Davvero li hai visti? - lo interruppe Ludovico per l'ennesima volta -Davvero hai visto fate e folletti?"
"Certo che sì! Come adesso vedo te... Perché ti meravigli?"
"Oh... beh! Ti spiegherò dopo, adesso dimmi, invece, come hai fatto ad arrivare fin qui."
"Con la mia astronave! - rispose candidamente la minuscola creatura, indicando la sfera luccicante attaccata all'albero - ... che è andata ad impigliarsi tra i rami del tuo albero."
"Oh! - esclamò Ludovico - L'ho attaccata io a quel ramo, ma tu, come hai fatto ad arrivare fino a casa mia?"
"L'astronave-madre con cui siamo arrivati sulal Terra è atterrata in un bosco non lontano da qui. - spiegò Darrik tirando sù col nasino - Io mi sono messo in giro con la mia navetta e sono arrivato qui."
"Oh! - ripeté Ludovico -E dimmi... siete tutti così piccini sul tuo pianeta? E... e vestite tutti in maniera così strana?"
"Perché?... Il tuo vestito non è forse strano?"
"E' un costume da Uomo-Ragno. - replicò Ludovico - Me l'hanno regalato a Natale. Anche questo mi hanno regalato... è il filo della Rete dell'Uomo-Ragno e mi diverto a lanciarlo sui rami. Vuoi vedere?"
"Sicuro!" acconsentì con immediato entusiasmo il piccolo Darrik.
Andarono sul balcone, Darrik sulla spalla di Ludovico, che domandò:
"Dove vuoi che lanci il filo della ragnatela?"
"Lancialo su quella striscia bianca nel cielo." rispose l'altro.
"E' la scia di un reattore. E' troppo in alto." fece osservare Ludovico.
"Cip... ciop... cipciop..." un passero sceso giù dal tetto volò intorno al capo di Ludovico e si fermò a mezz'aria, di fronte a Darrik che subito lo imitò:
"Ciocip... cipi...ciop..."
"Che fai? Cinguetti?" esclamò Ludovico.
"Il passerotto mi ha detto che quella nuvola è soffice come neve."
"Vuoi dire... vuoi dire che conosci il linguaggio dei passeri?"
"Certo! Noi di Okron comprendiamo qualunque linguaggio... di ogni essere vivente." aggiunse.
"Beati voi! Noi, qui sulla Terra, non ci comprendiamo nemmeno quando parliamo la stessa lingua..... E adesso che si fa?"
"Lancia il filo della ragnatela." suggerì Darrik.
Ludovico non se lo fece ripetere; lanciò il filo che salì così in alto da raggiungere la scia dell'aereo.
"E adesso su... "
Un attimo di esitazione, poi Ludovico seguì il minuscolo amico che già stava arrampicandosi lungo il filo della ragnatela; qualche veloce bracciata e... oplà, raggiunsero le nuvolette bianche della scia.
Erano davvero morbide come aveva detto il passero e spumeggianti come panna; i piedini affondavano come in un manto di soffice neve tiepida.
Non erano soli.
Qualcuno li aveva preceduti: un bimbo seminascosto in una candida tunica lunga fino ai piedi. Stava seduto su una di quelle nuvolette con aria aflfitta e sconsolata. I gomiti appoggiati alle ginocchia, il visetto appoggiato tra le mani, guardava fisso avanti a sé, mentre due grossi lacrimoni gli luccicavano sulle guance.
Era un angioletto.
Ludovico lo capì dalle alucce.
Veramente, di alucce ne aveva solo una; l'altra giaceva sulla superficie della nuvola, spezzata
"Salve!" fecero in coro i due amici.
"Salve!" rispose l'angioletto senza neppure sollevare il capo.
"Deve essere accaduto qualcosa di davvero catastrofico, se sei così sconsolato, figlio delle stelle." disse Darrik.
"La mia missione... - l'angioletto sollevò lo sguardo triste e sconsolato - Non potrò portare a termine la mia missione... la mia prima missione."
"La tua prima missione?" s'informò Ludovico.
"Fare da angelo custode ad un bimbo che sta per giungere alla sua nuova casa."
"Davvero? Che cosa é successo?"
"Ero assieme alla cicogna che lo trasportava nel suo pannolino, ma un cacciatore ci ha puntato contro il fucile... Io ho cercato di proteggerli, ma sono stato ferito ed ho dovuto fermarmi qui, su questa nuvola."
"Non devi preoccuparti. - cercò di consolarlo Ludovico - Qualcosa faremo."
"Che cosa si può fare?" domandò speranzoso l'angioletto.
"Dobbiamo pensarci. Tu che cosa suggerisci, Darrik?"
"Semplice! Potrebbe scendere con il filo della ragnatela." suggerì il piccolo extra-terrestre.
"Ci vuole un mezzo più veloce. - osservò l'angioletto - Guardate laggiù... La cicogna sta già per atterrare su quel tetto." indicò un tetto sotto di loro.
"Ma quello è il tetto della mia casa." esclamò sorpreso Ludovico.
"Oh bella! Aspettavi un fratellino e non lo sapevi?" esclamò Darrik.
"Una sorellina... - rettificò l'angioletto - Una bambina... ma come faccio ad arrivare laggiù? La mia ala é spezzata. Non posso volare."
"Niente paura... lo hai un nome?" chiese il minuscolo figlio delle stelle.
"Emmolo... il mio nome è Emmolo!"
"Bene, Emmolo!... Quello che devi fare è salire su quel raggio di sole... Guarda. Il raggio entra proprio nella casa di Ludovico. Prendi la tua aluccia e sali sul raggio, poi lasciati scivolare giù... quando avrai raggiunto terra, potrai sistemare la tua aluccia."
Senza indugiare, l'angioletto prese l'aluccia, montò sul raggio luminoso e si lasciò scivolare giù.
"Arrivederci!" salutò.
I due amici lo seguirono con lo sguardo fino a quando non fu che un puntino luminoso sotto di loro.
"E' proprio bello quassù! - l'attenzione di Ludovico tornò alle nuvole - Sembrano di panna montata."
"Oh! - esclamò con uno strano accento il piccolo extra-terrestre - Tu pensi alla panna montanta!... Guarda di fronte a noi..."
"C'é aria di temporale." esclamò Ludovico e non terminò la frase, ché un boato squassò l'aria.
"Il Sacro Askator ci aiuti! - proruppe spaventato Darrik - Questi boati mi gelano il fluido nelle vene."
"Il sangue... si dice il sangue. - lo corresse Ludovico - Ed è dei lampi che dovi aver paura, non dei tuoni... - Un secondo ed un terzo lampo; Darrik, intanto era scomparso sotto il colletto della sua camicia - Oh! Sembra di essere in mezzo ai fuochi d'artificio nella notte di Capodanno."
"Ma tu non hai paura? - il faccino di Darrik spuntò da sotto il colletto - Oh... Superkasterikh!"
"Eh?... Superkasterik? Che significa?"
"Significa... oh!... forse accipicchiolina, come dite voi. Ma tu non hai paura?"
"Certo. - rispose Ludovico - Ma il temporale si sta già allontanando e... guarda laggiù, Darrik!"
"Che cos'é?"
"E' l'arcobaleno."
"Oh! - Darrik spuntò completamente fuori del colletto - Mio fratello, che sulla terra é venuto molte volte, dice che l'arcobaleno è la pittura più bella di tutte le galassie... Non credevo fosse così. Chi l'ha dipinta?"
"Nessuno l'ha dipinta. - spiegò Ludovico - Sono i raggi del sole che cadendo sulle gocce d'acqua dopo la pioggia, creano quei colori e quella forma."
"Bellissimo! Perché non usiamo il filo della ragnatela per vederla più da vicino?"
"Buona idea."
Detto, fatto! Un attimo dopo, un bel ponte era a loro disposizione e lo attraversarono quasi di corsa per raggiungere l'arcobaleno.
Oh! Com'era bello, luminoso, colorato e fosforescente.
Con un salto Ludovico balzò sulla prima fascia colorata; era soffice e tiepida.
Si lasciarono scivolare lentamente, con risatine e gridolini di gioia. Più giù. Sempre più giù, ma d'improvviso, oplà, si trovarono scaraventati fuori della fascia colorata.
"Aiuto! Aiuto! Stiamo precipitando. Si salvi chi può!" urlò Ludovico, ma il piccolo Darrik si librò nell'aria e con il minuscolo braccio teso l'afferrò e lo sorresse per il colletto della camicia.
"Non so per quanto potrò reggerti... sei così grande e pesante." disse, quand'ecco una grossa ala tendersi verso di loro, pronta ad accoglierli ed una voce stridula sorprese Ludovico
"Aghpath... aghpat..."
"Che cosa ha detto?" domandò Ludovico al piccolo amico dopo che una doppia piroetta lo aveva fatto planare sulla groppa di uno splendido, favoloso grifo, metà aquila e metà leone.
"Ha detto: Salve!" spiegò Darrik, aggrappato alla sua spalla sinistra.
"Salve!" salutò Ludovico.
Il favoloso animale rispose con un altro incomprensibile verso.
"Che cosa ha detto?" tornò a chiedere Ludovico.
"Chiede dove andiamo."
"Digli che vorrei tornare a casa mia."
"Anch'io devo tornare all'astronave-madre... o il mio papà penserà che mi sia perso e al prossimo viaggio sulla Terra non mi lascerà più andare in giro da solo."
Il grifone puntò sul balcone di casa e subito dopo si levò in volo sbattendo le ali in segno di saluto; i due risposero agitando le braccia.
"Ti rivedrò ancora?" domandò Ludovico al piccolo Darrik, appena rientrati in casa.
"Tornerò fra duecento anni." rispose questi.
"Duecento anni? "
"Tranquillo! Nella mia galassia duecento anni sono molto brevi... brevissimi. Arrivederci. Adesso devo andare."
"Ciao, amico... così ci salutiamo, qui sulla Terra."
"Ciao, amico." cinguettò Darrik, librandosi nell'aria.
Ludovico ritirò il filo della ragnatela, lo avvolse ben bene ed entrò in sala per riporlo ai piedi dell'albero; la sfera luccicante non c'era più. Un vagito, però, provenne dalla canera della mamma, che era appena tornata dall'ospedale dove era andata di corsa con il babbo molte ore prima.
Si precipitò da quella parte e sulla soglia vide l'angioletto.
"Ciao, Emmolo... e la tua aluccia?" domandò.
"A posto. - rispose quello -Me l'ha riparata Leorik, il tuo angioletto custode."
"Davvero? E dove si trova adesso? Vorrei vederlo e parlargli"
"E' dietro di te, ma non puoi vederlo. Gli Angeli sono invisibili."
"E tu, allora? Perché ti fai vedere?"
"Appena sarò vicino alla tua sorellina, diventerò invisibile anch'io."
"Ma ci sarai? Non è che poi vai via anche tu ?"
"Ci sarò! Ci sarò!... E anche il tuo angelo sarà sempre con te..." lo rassicuro l'angioletto, ma appena raggiunta la soglia della camera della mamma, anch'egli scomparve.
"Leorik!... E' così che si chiama il mio Angelo Custode... Peccato che non possa vederlo né sentirlo!" pensò a voce alta, mentre anch'egli varcava la soglia della camera della mamma, ma gli parve, anzi, la sentì perfettamente, una carezza. Come di morbide ali che gli sfioravano il bel volto.
Il piccolo pescatore

Alla casetta di Leuccio si arrivava dopo aver rasentato la scogliera del paese che si affacciava su un precipizio azzurro e spumeggiante; era proprio laggiù, verso l’ultima casa del villaggio che l’unico figlio di mamma Pia e papà Vanni si stava dirigendo di corsa con ai piedi gli zoccoli di legno e la borsa dei libri sotto il braccio.
“Cosa c’è, Leuccio? – a salutare il suo rumoroso passaggio c’era un gruppo di pescatori seduti per terra o sopra scanni di legno; nascosti entro enormi pastrani grigi per difendersi dal freddo rigido di dicembre rattoppavano reti – Ne hai combinata un’altra delle tue? Ah.ah.ah.”
”Macché, nonno Mastro! – gridava il ragazzino senza rallentare e trascinandosi dietro la loro allegra risata – Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta!” Gridava. Felice e soddisfatto, come se la borsa, che saltellava con lui, contenesse dolcetti e prelibate leccornie invece che i libri di scuola.
E sì! Conoscevano tutti, Leuccio, perché almeno una volta, a tutti aveva fatto qualche birbonata.
Non cattiva, naturalmente. Di quelle che si fanno perdonare subito.
E poi, quel ragazzino aveva il cuore grande così.
Un po’ birichino… ma chi non lo è o non lo è stato ad otto anni?
La mamma se lo vide piombare in casa come un fulmine: urlante di gioia e ansimante per la corsa.
“Dov’è il babbo, mà. Dov’è?”
“Ma che cosa c’è, Leuccio? – tentò lei di asciugargli i capelli biondi e ricciuti, bagnati di salsedine e sudore – Non è il momento buono per le monellerie. Non agitarti così. Il babbo arriverà subito.”
“Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta, mà. –Leuccio, però, era incontenibile. Sventolava sotto gli occhi di sua madre la pagella tirata fuori della cartella come avrebbe fatto un ardito guerriero con una bandiera. – Questa volta il babbo dovrà portarmi con lui a pescare.”
Ecco la ragione di tanto incontenibile vivacità!
Mamma Pia fece l’atto di prendere la parola, ma Leo, che aveva fatto soltanto un’interruzione per riprendere fiato, continuò:
“Il babbo l’ha promesso. – insisteva – Se mi porterai una bella pagella piena di bei voti, ti porto con me sul mare… mi ha detto così il babbo… e guarda questa pagella, mà… non è davvero bella?”
“Sicuro, Leuccio. Sicuro! E ne faremo un bel quadro da appendere alla parete.” provò a calmarlo la mamma.
Trascinato dall’euforia, Leuccio non si accorse della presenza del padre e della sua faccia assai corrucciata, fino a quando, in tono un po’ brusco il padre domandò:
“Cosa succede?”
“La pagella, pà. – rispose il piccolo smorzando leggermente l’esultanza – Guarda. E’ come la volevi tu: piena di bei voti. Mi devi portare a pescare con te questa sera e domani sera e anche la sera che verrà dopo. Sono arrivate le vacanze di Natale ed io ti prometto che farò assai presto i compiti che ci ha assegnato la maestra.!
Papà Vanni allungò una mano verso la pagella, mentre con l’altra accarezzava la testa dai capelli ricci e contorti del figlio: per lui sognava una vita diversa dalla sua. Per il suo Leuccio voleva una vita più soddisfacente e con minori sacrifici della propria. E senza pericoli… senza i pericoli di una notte in burrasca come quella che doveva affrontare quella sera: la sera di Natale.
Il mare grosso era arrivato quasi improvviso.
Non così improvviso, in realtà. Per un bravo pescatore come mastro Vanni, leggere la superficie increspata del mare era come per Leuccio leggere il suo libro di Storia.
Mamma Pia aveva cercato di dissuadere il marito dall’affrontare un mare così minaccioso, ma il Vanni non aveva sentito ragioni e, come tutte le sere, aveva caricato le vele a bordo e s’era staccato da riva con la sua barca.
Mamma Pia e il piccolo Leo lo guardarono allontanarsi e rimasero a fissare il mare anche quando di lui non c’era più che un’ombra lontana, all’orizzonte, poi tornarono a casa, con le prime ombre della sera.
Arrivò l’ora della cena, la tavola era già apparecchiata: non troppo ricca, in verità. C’era il pane affettato, qualche dolcetto, un pezzo di formaggio, ma la ciotola della zuppa di pesce era quasi vuota: gli avanzi del pasto del giorno.
“Mangia la zuppa, Leuccio e vai a letto.” disse la madre, mentre appoggiata allo stipite della finestra, guardava di fuori.
“Voglio aspettare il babbo.” rispose Leo.
“Il babbo tarderà… questa notte. C’è il mare grosso… Quando arriverà, ti sveglierò. Prometto.”
“Perché è andato in barca se c’è mare grosso?” domandò il piccolo in tutta innocenza.
“Perché domani è Natale, bimbo mio.”
“Non capisco.”
“Spero tu non possa mai capirlo, tesoro.”
Leuccio guardò anch’egli attraverso i vetri della finestra e ascoltò le urla del mare.
“E’ davvero infuriato.” disse e gli prese un nodo alla gola.
“Non ho fame, mamma e non voglio andare a letto. Voglio aspettare con te l’arrivo del mio babbo.”
Mamma Pia non rispose; tra le dita, i grani di un rosario scorrevano veloci.
Passò del tempo; fuori ogni cosa era immersa nelle tenebre più fitte. Il mare urlava sempre più rabbioso e le luci erano solamente rari lumicini pronti a spegnersi.
Altro tempo passò: madre e figlio sempre con i volti incollati ai vetri della finestra.
Infine la donna si accorse che il piccolo era pian piano scivolato nel sonno; si chinò su di lui, lo raccolse sulle braccia e lo adagiò sul lettino dietro la tenda.
La notte era fonda; Leuccio sognava il mare.
Improvvisamente lo scosse una vocina:
“Ehi, piccolo dormiglione… svegliati!”
Leuccio aprì gli occhi e credette di continuare a sognare: sul bordo del letto c’era seduto uno strano bambino.
Era bruno di carnagione, come i bambini di quegli extra-comunitari che lavoravano al porto, neri e ricci di capelli; aveva occhi scuri e pungenti e una lunga camicia bianca.
Lo stava guardando con espressione preoccupata, si sorprese Leo, sia pur sorridente.
“Chi sei?” domandò, ancora frastornato dalle immagini dei sogni.
“Non importa chi sono… - rispose quello con una vocetta dolce e acuta insieme – Il tuo papà è in pericolo. La tempesta minaccia di travolgerlo. Dobbiamo correre in suo soccorso.”
Leuccio balzò in piedi, anch’egli con la sua camicia bianca, senza farsi ripetere l’invito, poi, evitando di far rumore per non svegliare sua madre che pareva essersi assopita contro i vetri della finestra, lasciò la casetta della scogliera e seguì il piccolo sconosciuto.A riva trovarono la zattera che papà Vanni aveva costruito per lui e fu con quella piccola imbarcazione che i due affrontarono il mare mugghiante, i suoi bianchi flutti e le gigantesche onde.
Fu Leuccio, per primo, ad avvistare un lumicino lontano, nel buio minaccioso del mare e lo indicò allo sconosciuto compagno: per chissà quale arcana ragione, quel piccolo extra-comunitario gli comunicava una grande fiducia ed una assenza totale di paura o timori.
“E’ il mio babbo.” disse tendendo in avanti un braccio.
“Sì! E’ il tuo papà! Non riesce a tornare a riva perché non sa decidersi a rinunciare all’abbondante pesca che è riuscito ad imprigionare nella sua rete. Se gettasse a mare la sua pesca, potrebbe salvarsi, ma il tuo papà non pensa per niente a salvare se stesso… il tuo papà pensa a te e alla tua mamma e pensa che domani è Natale ed a Natale devono essere tutti sereni.”
“Povero babbo. Andiamo da lui. Gli darò la mia zattera.”
Il piccolo sconosciuto aveva indovinato: il lumicino che aveva attirato la loro attenzione era davvero la lampada della barca di papà Vanni, in preda a cupo sconforto.
L’inattesa ed improvvisa comparsa del figlio, però, riportò in lui immediato sollievo.
“Leo?… che cosa ci fai qui con quella zattera? –urlò per farsi sentir in mezzo alle urla del mare - Ti avevo proibito di venire in mare.”
“Quando saremo a casa mi punirai per averti disubbidito, pà. – anche il ragazzino urlò – Adesso, però, occupiamoci della pesca… sai quanta voglia avessi di venire con te…”
“E’ un miracolo!” continuava a mormorare l’uomo; fino quel momento non aveva fatto che imprecare e pregare… a fasi alterne e con nessun risultato.
“Chi c’è con te?”
Papà Vanni, che come tutti i pescatori era un gran chiacchierone, aveva quasi l’impressione di non saper più fare uso della parola, tanto era emozionato ed incredulo davanti alla presenza di suo figlio.
La tempesta cominciò a diminuire, fin quasi a placarsi; le onde ruggivano ancora e sotto una luna comparsa improvvisa tra ammassi di nuvole, la superficie delle acque spumeggiava.
Arrivò, finalmente la calma. Quella, placida, dei momenti di bonaccia.
“Gettiamo ancora le reti, pà.” suggeri il piccolo Leo
“No, Figliolo. Torniamo a casa. Le reti sono piene e tua madre sarà molto preoccupata.”
Il pescatore puntò la prua verso riva e poco dopo la barca approdò.
Scesero tutti.
“Io devo andare.” disse il piccolo sconosciuto.
“Aspetta.. aspetta… non mi hai nemmeno detto il tuo nome… Aspetta..” provò a fermarlo Leo.
“Non posso aspettare… - l’altro si voltò; il bel volto bruno brillava, nella notte, di una luce radiosa e gli occhi erano colmi di magia e di splendore – Mi aspettano… Devo andare…” disse prima di scomparire dietro uno scoglio.
Padre e figlio rimasero per un lungo attimo con lo sguardo ancora fisso nel buio e in direzione di quello scoglio.
“Che strano ragazzo. – esordì papà Vanni, scuotendosi – E’ un tuo amico?” domandò.
“L’ho incontrato solo questa sera e…” spiegò Leo.
“Va bene! Va Bene!… - lo interruppe il padre – Affrettiamoci verso casa… tua madre sarà in pensiero, se si sarà accorta della tua assenza.”
Trovarono la mamma in cima alla scogliera, avvolta nella sua giacca rossa trapuntata; piangeva e pregava.
“Mamma… mamma… siamo qui!” gridò Leo, agitando le braccia e correndole incontro.
Si strinsero tutti e tre in un unico abbraccio.
“Domani… - continuava a piangere la mamma, accarezzando la testa ricciuta del suo ragazzo e stringendo la mano del suo uomo e guardando compiaciuta il frutto di insonne e tormentata notte di Natale – Domani dobbiamo donare agli altri un po’ di questa abbondanza…”
In chiesa, il giorno dopo, portarono doni a chi aveva meno di loro: pane, frutta, noci e tante altre buone cose.
Fu il piccolo Leo a depositare ogni cosa ai piedi del grande presepe.
Sollevando lo sguardo sulla bella statua del Bambin Gesù, si accorse della sconvolgente somiglianza di quel dolcissimo volto con il volto del piccolo sconosciuto dalla veste bianca e dai capelli neri, ricci e ancora umidi di acqua e salsedine. Proprio come i suoi.
“Cosa c’è, Leuccio? – a salutare il suo rumoroso passaggio c’era un gruppo di pescatori seduti per terra o sopra scanni di legno; nascosti entro enormi pastrani grigi per difendersi dal freddo rigido di dicembre rattoppavano reti – Ne hai combinata un’altra delle tue? Ah.ah.ah.”
”Macché, nonno Mastro! – gridava il ragazzino senza rallentare e trascinandosi dietro la loro allegra risata – Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta!” Gridava. Felice e soddisfatto, come se la borsa, che saltellava con lui, contenesse dolcetti e prelibate leccornie invece che i libri di scuola.
E sì! Conoscevano tutti, Leuccio, perché almeno una volta, a tutti aveva fatto qualche birbonata.
Non cattiva, naturalmente. Di quelle che si fanno perdonare subito.
E poi, quel ragazzino aveva il cuore grande così.
Un po’ birichino… ma chi non lo è o non lo è stato ad otto anni?
La mamma se lo vide piombare in casa come un fulmine: urlante di gioia e ansimante per la corsa.
“Dov’è il babbo, mà. Dov’è?”
“Ma che cosa c’è, Leuccio? – tentò lei di asciugargli i capelli biondi e ricciuti, bagnati di salsedine e sudore – Non è il momento buono per le monellerie. Non agitarti così. Il babbo arriverà subito.”
“Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta, mà. –Leuccio, però, era incontenibile. Sventolava sotto gli occhi di sua madre la pagella tirata fuori della cartella come avrebbe fatto un ardito guerriero con una bandiera. – Questa volta il babbo dovrà portarmi con lui a pescare.”
Ecco la ragione di tanto incontenibile vivacità!
Mamma Pia fece l’atto di prendere la parola, ma Leo, che aveva fatto soltanto un’interruzione per riprendere fiato, continuò:
“Il babbo l’ha promesso. – insisteva – Se mi porterai una bella pagella piena di bei voti, ti porto con me sul mare… mi ha detto così il babbo… e guarda questa pagella, mà… non è davvero bella?”
“Sicuro, Leuccio. Sicuro! E ne faremo un bel quadro da appendere alla parete.” provò a calmarlo la mamma.
Trascinato dall’euforia, Leuccio non si accorse della presenza del padre e della sua faccia assai corrucciata, fino a quando, in tono un po’ brusco il padre domandò:
“Cosa succede?”
“La pagella, pà. – rispose il piccolo smorzando leggermente l’esultanza – Guarda. E’ come la volevi tu: piena di bei voti. Mi devi portare a pescare con te questa sera e domani sera e anche la sera che verrà dopo. Sono arrivate le vacanze di Natale ed io ti prometto che farò assai presto i compiti che ci ha assegnato la maestra.!
Papà Vanni allungò una mano verso la pagella, mentre con l’altra accarezzava la testa dai capelli ricci e contorti del figlio: per lui sognava una vita diversa dalla sua. Per il suo Leuccio voleva una vita più soddisfacente e con minori sacrifici della propria. E senza pericoli… senza i pericoli di una notte in burrasca come quella che doveva affrontare quella sera: la sera di Natale.
Il mare grosso era arrivato quasi improvviso.
Non così improvviso, in realtà. Per un bravo pescatore come mastro Vanni, leggere la superficie increspata del mare era come per Leuccio leggere il suo libro di Storia.
Mamma Pia aveva cercato di dissuadere il marito dall’affrontare un mare così minaccioso, ma il Vanni non aveva sentito ragioni e, come tutte le sere, aveva caricato le vele a bordo e s’era staccato da riva con la sua barca.
Mamma Pia e il piccolo Leo lo guardarono allontanarsi e rimasero a fissare il mare anche quando di lui non c’era più che un’ombra lontana, all’orizzonte, poi tornarono a casa, con le prime ombre della sera.
Arrivò l’ora della cena, la tavola era già apparecchiata: non troppo ricca, in verità. C’era il pane affettato, qualche dolcetto, un pezzo di formaggio, ma la ciotola della zuppa di pesce era quasi vuota: gli avanzi del pasto del giorno.
“Mangia la zuppa, Leuccio e vai a letto.” disse la madre, mentre appoggiata allo stipite della finestra, guardava di fuori.
“Voglio aspettare il babbo.” rispose Leo.
“Il babbo tarderà… questa notte. C’è il mare grosso… Quando arriverà, ti sveglierò. Prometto.”
“Perché è andato in barca se c’è mare grosso?” domandò il piccolo in tutta innocenza.
“Perché domani è Natale, bimbo mio.”
“Non capisco.”
“Spero tu non possa mai capirlo, tesoro.”
Leuccio guardò anch’egli attraverso i vetri della finestra e ascoltò le urla del mare.
“E’ davvero infuriato.” disse e gli prese un nodo alla gola.
“Non ho fame, mamma e non voglio andare a letto. Voglio aspettare con te l’arrivo del mio babbo.”
Mamma Pia non rispose; tra le dita, i grani di un rosario scorrevano veloci.
Passò del tempo; fuori ogni cosa era immersa nelle tenebre più fitte. Il mare urlava sempre più rabbioso e le luci erano solamente rari lumicini pronti a spegnersi.
Altro tempo passò: madre e figlio sempre con i volti incollati ai vetri della finestra.
Infine la donna si accorse che il piccolo era pian piano scivolato nel sonno; si chinò su di lui, lo raccolse sulle braccia e lo adagiò sul lettino dietro la tenda.
La notte era fonda; Leuccio sognava il mare.
Improvvisamente lo scosse una vocina:
“Ehi, piccolo dormiglione… svegliati!”
Leuccio aprì gli occhi e credette di continuare a sognare: sul bordo del letto c’era seduto uno strano bambino.
Era bruno di carnagione, come i bambini di quegli extra-comunitari che lavoravano al porto, neri e ricci di capelli; aveva occhi scuri e pungenti e una lunga camicia bianca.
Lo stava guardando con espressione preoccupata, si sorprese Leo, sia pur sorridente.
“Chi sei?” domandò, ancora frastornato dalle immagini dei sogni.
“Non importa chi sono… - rispose quello con una vocetta dolce e acuta insieme – Il tuo papà è in pericolo. La tempesta minaccia di travolgerlo. Dobbiamo correre in suo soccorso.”
Leuccio balzò in piedi, anch’egli con la sua camicia bianca, senza farsi ripetere l’invito, poi, evitando di far rumore per non svegliare sua madre che pareva essersi assopita contro i vetri della finestra, lasciò la casetta della scogliera e seguì il piccolo sconosciuto.A riva trovarono la zattera che papà Vanni aveva costruito per lui e fu con quella piccola imbarcazione che i due affrontarono il mare mugghiante, i suoi bianchi flutti e le gigantesche onde.
Fu Leuccio, per primo, ad avvistare un lumicino lontano, nel buio minaccioso del mare e lo indicò allo sconosciuto compagno: per chissà quale arcana ragione, quel piccolo extra-comunitario gli comunicava una grande fiducia ed una assenza totale di paura o timori.
“E’ il mio babbo.” disse tendendo in avanti un braccio.
“Sì! E’ il tuo papà! Non riesce a tornare a riva perché non sa decidersi a rinunciare all’abbondante pesca che è riuscito ad imprigionare nella sua rete. Se gettasse a mare la sua pesca, potrebbe salvarsi, ma il tuo papà non pensa per niente a salvare se stesso… il tuo papà pensa a te e alla tua mamma e pensa che domani è Natale ed a Natale devono essere tutti sereni.”
“Povero babbo. Andiamo da lui. Gli darò la mia zattera.”
Il piccolo sconosciuto aveva indovinato: il lumicino che aveva attirato la loro attenzione era davvero la lampada della barca di papà Vanni, in preda a cupo sconforto.
L’inattesa ed improvvisa comparsa del figlio, però, riportò in lui immediato sollievo.
“Leo?… che cosa ci fai qui con quella zattera? –urlò per farsi sentir in mezzo alle urla del mare - Ti avevo proibito di venire in mare.”
“Quando saremo a casa mi punirai per averti disubbidito, pà. – anche il ragazzino urlò – Adesso, però, occupiamoci della pesca… sai quanta voglia avessi di venire con te…”
“E’ un miracolo!” continuava a mormorare l’uomo; fino quel momento non aveva fatto che imprecare e pregare… a fasi alterne e con nessun risultato.
“Chi c’è con te?”
Papà Vanni, che come tutti i pescatori era un gran chiacchierone, aveva quasi l’impressione di non saper più fare uso della parola, tanto era emozionato ed incredulo davanti alla presenza di suo figlio.
La tempesta cominciò a diminuire, fin quasi a placarsi; le onde ruggivano ancora e sotto una luna comparsa improvvisa tra ammassi di nuvole, la superficie delle acque spumeggiava.
Arrivò, finalmente la calma. Quella, placida, dei momenti di bonaccia.
“Gettiamo ancora le reti, pà.” suggeri il piccolo Leo
“No, Figliolo. Torniamo a casa. Le reti sono piene e tua madre sarà molto preoccupata.”
Il pescatore puntò la prua verso riva e poco dopo la barca approdò.
Scesero tutti.
“Io devo andare.” disse il piccolo sconosciuto.
“Aspetta.. aspetta… non mi hai nemmeno detto il tuo nome… Aspetta..” provò a fermarlo Leo.
“Non posso aspettare… - l’altro si voltò; il bel volto bruno brillava, nella notte, di una luce radiosa e gli occhi erano colmi di magia e di splendore – Mi aspettano… Devo andare…” disse prima di scomparire dietro uno scoglio.
Padre e figlio rimasero per un lungo attimo con lo sguardo ancora fisso nel buio e in direzione di quello scoglio.
“Che strano ragazzo. – esordì papà Vanni, scuotendosi – E’ un tuo amico?” domandò.
“L’ho incontrato solo questa sera e…” spiegò Leo.
“Va bene! Va Bene!… - lo interruppe il padre – Affrettiamoci verso casa… tua madre sarà in pensiero, se si sarà accorta della tua assenza.”
Trovarono la mamma in cima alla scogliera, avvolta nella sua giacca rossa trapuntata; piangeva e pregava.
“Mamma… mamma… siamo qui!” gridò Leo, agitando le braccia e correndole incontro.
Si strinsero tutti e tre in un unico abbraccio.
“Domani… - continuava a piangere la mamma, accarezzando la testa ricciuta del suo ragazzo e stringendo la mano del suo uomo e guardando compiaciuta il frutto di insonne e tormentata notte di Natale – Domani dobbiamo donare agli altri un po’ di questa abbondanza…”
In chiesa, il giorno dopo, portarono doni a chi aveva meno di loro: pane, frutta, noci e tante altre buone cose.
Fu il piccolo Leo a depositare ogni cosa ai piedi del grande presepe.
Sollevando lo sguardo sulla bella statua del Bambin Gesù, si accorse della sconvolgente somiglianza di quel dolcissimo volto con il volto del piccolo sconosciuto dalla veste bianca e dai capelli neri, ricci e ancora umidi di acqua e salsedine. Proprio come i suoi.
Il cucchiaino d'argento

Quella sera, la sera della Vigilia di Natale, la mamma di Laetitia Angiolina, aveva ospiti a cena.
Laetitia era una bella bambina di tre anni, con lunghissimi capelli neri come il carbone e due occhioni azzurri come il mare. Il suo passatempo preferito era aiutare la mamma nelle faccende domestiche: la facevano sentire “grande”. La facevano sentire una vera donnina e questo le procurava grande soddisfazione.
Fra le altre, lucidare le posate era l’incombenza che la mamma le affidava più di frequente e perciò tutte le posate di casa quel giorno passarono tra le sue manine.
Laetitia Angiolina, che era anche una bambina scrupolosa e diligente, attese alla propria incombenza proprio con scrupolo e diligenza.
Terminata l’operazione con le posate d’acciaio, la piccola si occupò dei dodici cucchiaini d’argento che la mamma tirava fuori dal prezioso astuccio per le occasioni importanti.
Erano cucchiaini molto belli e di gran valore: luccicanti e finemente cesellati, opera di un valente artista.
Laetitia, però, oltre che volenterosa era anche un po’ distratta e fu così che, finito il lavoro, in mezzo alle posate d’acciaio si trovò anche uno dei cucchiaini d’argento.
Dopo aver appoggiato su un tavolino davanti alla finestra la scatola con il vasellame pronto all’uso, la piccola Laetitia si allontanò, ignara di quanto stava accadendo all’interno di quella scatola.
“Ahi! – si lamentava il cucchiaino d’argento, rivolto verso il forchettone d’acciaio – Mi fai male!”
“Ma se non ti ho nemmeno sfiorato!” rispose l’altro con un vocione un po’ seccato.
“Potresti farlo!” insistette petulante il cucchiaino.
“Sentitelo, il signorino!... Ha paura di essere toccato!”
Il forchettone sembrava davvero offeso.
“Non dargli retta.” suggerì una forchetta alla sua sinistra.
“Tu bada ai fatti tuoi! - la raggiunse la vocetta stridula del cucchiaino che, nel movimento brusco che fece seguire alle parole, si ritrovò fianco a fianco con la lama lucente ed affilata di un coltello - Ehi, tu! – insorse nuovamente, rivolgendo i suoi rimbrotti al coltello – Attento a non rovinare la bellezza del mio intarsio.”
“Galletto damerino! Non sai che se volessi, con la mia lama affilata potrei cancellare tutti questi ridicoli ghirigori che hai sul manico?” lo rimbeccò quello, seguito dai commenti dei compagni, a cui l’atteggiamento del cucchiaino d’argento appariva davvero sciocco e inopportuno.
“Ahi! Mi fai male! – gemette il cucchiaino – Perché sei così cattivo?”
“E tu, perché ti lamenti senza ragione? Se proprio devi piagnucolare, fallo per un valido motivo!”
“Giusto! – approvò il vocione concavo del mestolo – Dopotutto, questo damerino è un intruso!”
“Ben detto! - il forchettone si sentì nuovamente autorizzato ad entrare in causa – Chi lo ha invitato? Se si sente tanto superiore a noi, torni tra i suoi simili. Non lo vogliamo qui. Non ci piacciono quelli come lui, fanatici e presuntuosi.”
La situazione del cucchiaino d’argento s’era fatta davvero difficile.
Bisogna convenire che se l’era andata a cercare.
La faccenda sarebbe andata avanti chissà per quanto tempo ancora, se alla piccola Laetitia Angiolina non fosse venuta l’idea di apparecchiare subito la tavola per fare una sorpresa alla mamma.
La piccola prese lo scatolone. Il suono di una zampogna, però, proveniente dalla strada, la spinse verso la finestra. Laetitia l’aprì per affacciarsi e guardare lo zampognaro ed un Babbo Natale vestito tutto di rosso; un attimo di distrazione e lo scatolone le sfuggì via dalle manine. La piccola riuscì ad afferrarlo, ma non poté evitare che molte delle posate finissero sul davanzale o per terra.
Laetitia Angiolina si chinò a raccogliere quelle che giacevano sul pavimento e non si accorse che il forchettone, trattenuto da alcuni, tra coltelli, cucchiai e forchette, penzolava dal davanzale: aggrappato a due dei suoi denti, c’era il cucchiaino d’argento.
“Aiutami! – supplicava questi in preda al terrore – Non lasciarmi cadere o finirò schiacciato dalle ruote di qualche auto.”
“Non agitarti, schiocchino, o finirai davvero di sotto.” lo rimproverò bonario il forchettone, facendo attenzione a non fare movimenti bruschi per non provocare, sia pur involontariamente, una rovinosa caduta dell’orgoglioso e tremante “piccolo lord”.
“Stai tranquillo! – lo rassicurò un coltello, lo stesso che poco prima lo aveva solleticato – Non ti lasceremo cadere. Coraggio! Fra poco, la piccola Laetitia verrà a liberarci. Teniamo duro… tutti quanti!”
Tennero duro e finalmente Laetitia Angiolina si accorse del pericolo in cui versava il povero cucchiaino e si affrettò a metterlo in salvo, poi prese anche il forchettone e tutte le altre posate e le ripose nella scatola.
“Ma che cosa ci fa qui dentro, questo cucchiaino?” si chiese la piccola.
Se avesse potuto capire il linguaggio delle posate, però, avrebbe udito una vocina tremante:
“Ci sono capitato per imparare una grande lezione. – stava dicendo il cucchiaino - Ho capito che non si deve essere presuntuosi nè troppo vanitosi…. solo un po’, forse… Oh.oh! Se il forchettone non mi avesse salvato, cosa ne sarebbe stato del bel decoro di cui andavo tanto fiero?”
Già!... cosa ne sarebbe stato?
Laetitia era una bella bambina di tre anni, con lunghissimi capelli neri come il carbone e due occhioni azzurri come il mare. Il suo passatempo preferito era aiutare la mamma nelle faccende domestiche: la facevano sentire “grande”. La facevano sentire una vera donnina e questo le procurava grande soddisfazione.
Fra le altre, lucidare le posate era l’incombenza che la mamma le affidava più di frequente e perciò tutte le posate di casa quel giorno passarono tra le sue manine.
Laetitia Angiolina, che era anche una bambina scrupolosa e diligente, attese alla propria incombenza proprio con scrupolo e diligenza.
Terminata l’operazione con le posate d’acciaio, la piccola si occupò dei dodici cucchiaini d’argento che la mamma tirava fuori dal prezioso astuccio per le occasioni importanti.
Erano cucchiaini molto belli e di gran valore: luccicanti e finemente cesellati, opera di un valente artista.
Laetitia, però, oltre che volenterosa era anche un po’ distratta e fu così che, finito il lavoro, in mezzo alle posate d’acciaio si trovò anche uno dei cucchiaini d’argento.
Dopo aver appoggiato su un tavolino davanti alla finestra la scatola con il vasellame pronto all’uso, la piccola Laetitia si allontanò, ignara di quanto stava accadendo all’interno di quella scatola.
“Ahi! – si lamentava il cucchiaino d’argento, rivolto verso il forchettone d’acciaio – Mi fai male!”
“Ma se non ti ho nemmeno sfiorato!” rispose l’altro con un vocione un po’ seccato.
“Potresti farlo!” insistette petulante il cucchiaino.
“Sentitelo, il signorino!... Ha paura di essere toccato!”
Il forchettone sembrava davvero offeso.
“Non dargli retta.” suggerì una forchetta alla sua sinistra.
“Tu bada ai fatti tuoi! - la raggiunse la vocetta stridula del cucchiaino che, nel movimento brusco che fece seguire alle parole, si ritrovò fianco a fianco con la lama lucente ed affilata di un coltello - Ehi, tu! – insorse nuovamente, rivolgendo i suoi rimbrotti al coltello – Attento a non rovinare la bellezza del mio intarsio.”
“Galletto damerino! Non sai che se volessi, con la mia lama affilata potrei cancellare tutti questi ridicoli ghirigori che hai sul manico?” lo rimbeccò quello, seguito dai commenti dei compagni, a cui l’atteggiamento del cucchiaino d’argento appariva davvero sciocco e inopportuno.
“Ahi! Mi fai male! – gemette il cucchiaino – Perché sei così cattivo?”
“E tu, perché ti lamenti senza ragione? Se proprio devi piagnucolare, fallo per un valido motivo!”
“Giusto! – approvò il vocione concavo del mestolo – Dopotutto, questo damerino è un intruso!”
“Ben detto! - il forchettone si sentì nuovamente autorizzato ad entrare in causa – Chi lo ha invitato? Se si sente tanto superiore a noi, torni tra i suoi simili. Non lo vogliamo qui. Non ci piacciono quelli come lui, fanatici e presuntuosi.”
La situazione del cucchiaino d’argento s’era fatta davvero difficile.
Bisogna convenire che se l’era andata a cercare.
La faccenda sarebbe andata avanti chissà per quanto tempo ancora, se alla piccola Laetitia Angiolina non fosse venuta l’idea di apparecchiare subito la tavola per fare una sorpresa alla mamma.
La piccola prese lo scatolone. Il suono di una zampogna, però, proveniente dalla strada, la spinse verso la finestra. Laetitia l’aprì per affacciarsi e guardare lo zampognaro ed un Babbo Natale vestito tutto di rosso; un attimo di distrazione e lo scatolone le sfuggì via dalle manine. La piccola riuscì ad afferrarlo, ma non poté evitare che molte delle posate finissero sul davanzale o per terra.
Laetitia Angiolina si chinò a raccogliere quelle che giacevano sul pavimento e non si accorse che il forchettone, trattenuto da alcuni, tra coltelli, cucchiai e forchette, penzolava dal davanzale: aggrappato a due dei suoi denti, c’era il cucchiaino d’argento.
“Aiutami! – supplicava questi in preda al terrore – Non lasciarmi cadere o finirò schiacciato dalle ruote di qualche auto.”
“Non agitarti, schiocchino, o finirai davvero di sotto.” lo rimproverò bonario il forchettone, facendo attenzione a non fare movimenti bruschi per non provocare, sia pur involontariamente, una rovinosa caduta dell’orgoglioso e tremante “piccolo lord”.
“Stai tranquillo! – lo rassicurò un coltello, lo stesso che poco prima lo aveva solleticato – Non ti lasceremo cadere. Coraggio! Fra poco, la piccola Laetitia verrà a liberarci. Teniamo duro… tutti quanti!”
Tennero duro e finalmente Laetitia Angiolina si accorse del pericolo in cui versava il povero cucchiaino e si affrettò a metterlo in salvo, poi prese anche il forchettone e tutte le altre posate e le ripose nella scatola.
“Ma che cosa ci fa qui dentro, questo cucchiaino?” si chiese la piccola.
Se avesse potuto capire il linguaggio delle posate, però, avrebbe udito una vocina tremante:
“Ci sono capitato per imparare una grande lezione. – stava dicendo il cucchiaino - Ho capito che non si deve essere presuntuosi nè troppo vanitosi…. solo un po’, forse… Oh.oh! Se il forchettone non mi avesse salvato, cosa ne sarebbe stato del bel decoro di cui andavo tanto fiero?”
Già!... cosa ne sarebbe stato?
Il pony

Beatrice era una bimba che adorava gli animali.
Nella sua bella casa di campagna ve n’erano almeno una mezza dozzina a cui era tanto affezionata e da cui era molto amata. C’era il coniglietto Tiffy, il gattino Miao, il cagnolino Fuffy, il passerotto Mussy e perfino una lentissima e simpaticissima tartaruga che Beatrice chiamava Piè-Veloce. Allo zoo mancava solo un cavallino e il papà glielo aveva promesso in regalo per Natale.
Beatrice gli aveva già scelto il nome: Gitano, poiché era con il capo di una tribù di nomadi accampati vicino alla sua casa, che il papà stava discutendo sul prezzo.
A Natale mancavano pochi giorni e Beatrice, con la mamma, era andata a comprare la sella per il suo pony. Vi aveva investito tutti i soldini del suo salvadanaio, ma era soddisfatta. Ogni tanto andava a prenderla, la provava e giocava, come se il pony fosse già lì, con lei.
Arrivò la vigilia di Natale. Il papà si era recato al campo degli zingari. Si era appena allontanato, ma a Beatrice pareva fosse trascorsa un’eternità. Attaccata ai vetri della finestra, aspettava il suo arrivo e tempestava sua madre di “come e perché”
Un nitrito in lontananza pose fine all’attesa e Beatrice poté finalmente vedere il pony tanto desiderato.
Era tal quale il papà lo aveva descritto: tutto nero e con una grossa stella grigia fra gli occhi e camminava agile e svelto nella neve.
“E’ proprio bello!” esclamò felice, scostando la tendina dai vetri ed indicandolo alla sua mamma.
“E’ bellissimo. – sorrise la mamma – E’ bello e nero come la pece.”
Insieme al papà, che agitava un braccio per attirare la loro attenzione, c’era un altro uomo; era lui a reggere le briglie del pony.
“Chi è quell’uomo, mamma?” domandò Beatrice.
“E’ lo zingaro che ha venduto il pony a papà.”
“Perché è qui?”
“Per prendere i suoi soldi.”
“Ah!” fece la piccola rassicurata. Nel distogliere da lui lo sguardo, però, si accorse di un’altra presenza: un ragazzino che a malapena tentava di nascondersi dietro l’albero di pero del giardino, all’interno del cancello.
“Hai visto, mamma? C’è un bambino che si nasconde dietro il pero. Deve aver seguito papà e quello zingaro.” disse Beatrice tendendo una mano.
“Dov’è? – domandò la mamma – Non vedo nessuno.”
“Là… dietro l’albero del pero.”
La mamma guardò in quella direzione.
“Oh, sì! Lo conosco. – esclamò – Conosco quel bambino. E’ il piccolo Christian.”
“Chi è Christian?”
“Il padroncino del pony. – spiegò la mamma – Certo gli dispiace averlo perduto e vorrà vederlo per l’ultima volta.”
“Se gli dispiace tanto per il suo pony, perché lo ha venduto al mio papà?” replicò la piccola.
“Gli zingari sono molto poveri e qualche volta sono costretti a vendere ciò che hanno… Papà dice che la mamma di Chistian è malata e necessita di cure… Forse Christian aveva solo il suo pony da vendere, per poter curare la sua mamma.”
“Per questo ha venduto il pony, allora?”
“Oh, sì, piccola mia! – sospirò la donna - Credo proprio di sì! Non tutti sono fortunati a questo mondo!”
“Povero Christian!” Beatrice divenne seria e taciturna.
“Beatrice, non vuoi provare la tua sella?” la raggiunse alle spalle la voce del papà che era salito di sopra e reggeva sulle braccia la sella con le borchie dorate.
“Sì, sì! Certo” rispose la ragazzina.
Scesero in cortile. Papà sellò il pony e mamma l’aiutò a montare. Tenendo l’animale per le briglie, le fecero fare un giretto lungo tutto il cortile e Beatrice sorrideva. Anzi, rideva forte, felice e divertita, dimentica di ogni cosa.
D’improvviso, però, zittì: il suo sguardo aveva incrociato quello del piccolo Christian, sempre nascosto dietro gli alberi del giardino. Le era parso che piangesse.
“Torniamo in casa. – disse – Fa freddo.”
Il mattino del giorno dopo, si svegliarono tutti di buon’ora. La mamma e il papà erano ansiosi di vedere ancora una volta il sorriso felice della loro figliola. La mamma, poi, doveva darle il suo regalo e non potevano essere che i finimenti per il pony: belli e riccamente lavorati.
Raggiunsero la camera di Beatrice, certi che la piccola fosse già sveglia e non si stupirono nel trovarla vuota: Beatrice aveva sicuramente raggiunto il suo cavallino.
“E’ già andata a trovare Gitano.” disse il papà.
“E’ da così tanto tempo che desiderava un pony. – fece eco la mamma – Credo che abbia dormito poco, questa notte.”
“Credo non abbia dormito affatto. Guarda il lettino: è disfatto, ma le lenzuola non sono state toccate. – osservò il papà poi, scorgendo l’espressione preoccupata della moglie – Sarà già nella stalla.” la rassicurò.
“Andiamo subito a vedere.” disse la donna, gettandosi la vestaglia sulle spalle e dirigendosi frettolosa verso la porta d’ingresso.
Trovarono la stalla vuota: Beatrice non c’era e neppure il pony e la mamma cominciò ad agitarsi.
Corsero entrambi fuori della stalla e solo allora si accorsero delle numerose orme sulla neve: orme di un cavallino e di due piedini. Erano fresche; quelle del giorno precedente erano coperte e confuse dalla neve caduta durante la notte.
Le seguirono.
“Portano fuori del cortile.” osservò sempre più preoccupata la mamma.
“Credo di sapere dove sono dirette.” disse il papà, ma anche la mamma aveva capito.
“Sono dirette al campo degli zingari.” esclamò.
Trovarono i gitani tutti riuniti intorno al carrozzone di Juan, il padre di Christian.
“Non è colpa nostra, senor.- lo zingaro si staccò dal gruppo, andando incontro ai due visitatori – Non è colpa nostra… di nessuno di noi.” tentò di spiegare con larghi gesti, come di chi teme di essere accusato di una colpa non commessa.
“E’ vero, papà!” anche Beatrice si allontanò dagli altri e raggiunse i genitori, che l’abbracciarono stretta; il papà si tolse la giacca da camera e con quella avvolse la sua bambina, coperta del solo pigiama.
”Ho riportato qui io Gitano. – riprese Beatrice -
Non volevo che il giorno di Natale un altro bimbo
fosse infelice per causa mia.”
“Vi restituirò il vostro dinero, senor. – riprese il gitano – Per guarire la mamma del mio Christian troverò dinero da qualche altra parte. La povera donna preferirebbe morire piuttosto che veder soffrire il suo ninyo.”
“Tieni pure i soldi, Juan. – esclamò il papà di Beatrice scuotendo il capo – Consideralo il regalo della mia bambina al tuo bambino, affinché possa curare la sua mamma. Non è giusto togliere ad un bambino il suo amico più caro.”
“Christian mi ha promesso che avrà sempre cura di Gitano e non gli farà mancare mai nulla.” interloquì Beatrice.
“Ne sono convinta. – la mamma la baciò sulla guancia – Nessuno, nemmeno tu, bambina mia, potresti amarlo e curarlo meglio di Christian.”
“Forse gli regalerò anche la sella.”
Il papà scosse il capo:
“Non sarà necessario, piccola. Ti comprerò un altro pony, ma non lo toglierò a nessun
Nella sua bella casa di campagna ve n’erano almeno una mezza dozzina a cui era tanto affezionata e da cui era molto amata. C’era il coniglietto Tiffy, il gattino Miao, il cagnolino Fuffy, il passerotto Mussy e perfino una lentissima e simpaticissima tartaruga che Beatrice chiamava Piè-Veloce. Allo zoo mancava solo un cavallino e il papà glielo aveva promesso in regalo per Natale.
Beatrice gli aveva già scelto il nome: Gitano, poiché era con il capo di una tribù di nomadi accampati vicino alla sua casa, che il papà stava discutendo sul prezzo.
A Natale mancavano pochi giorni e Beatrice, con la mamma, era andata a comprare la sella per il suo pony. Vi aveva investito tutti i soldini del suo salvadanaio, ma era soddisfatta. Ogni tanto andava a prenderla, la provava e giocava, come se il pony fosse già lì, con lei.
Arrivò la vigilia di Natale. Il papà si era recato al campo degli zingari. Si era appena allontanato, ma a Beatrice pareva fosse trascorsa un’eternità. Attaccata ai vetri della finestra, aspettava il suo arrivo e tempestava sua madre di “come e perché”
Un nitrito in lontananza pose fine all’attesa e Beatrice poté finalmente vedere il pony tanto desiderato.
Era tal quale il papà lo aveva descritto: tutto nero e con una grossa stella grigia fra gli occhi e camminava agile e svelto nella neve.
“E’ proprio bello!” esclamò felice, scostando la tendina dai vetri ed indicandolo alla sua mamma.
“E’ bellissimo. – sorrise la mamma – E’ bello e nero come la pece.”
Insieme al papà, che agitava un braccio per attirare la loro attenzione, c’era un altro uomo; era lui a reggere le briglie del pony.
“Chi è quell’uomo, mamma?” domandò Beatrice.
“E’ lo zingaro che ha venduto il pony a papà.”
“Perché è qui?”
“Per prendere i suoi soldi.”
“Ah!” fece la piccola rassicurata. Nel distogliere da lui lo sguardo, però, si accorse di un’altra presenza: un ragazzino che a malapena tentava di nascondersi dietro l’albero di pero del giardino, all’interno del cancello.
“Hai visto, mamma? C’è un bambino che si nasconde dietro il pero. Deve aver seguito papà e quello zingaro.” disse Beatrice tendendo una mano.
“Dov’è? – domandò la mamma – Non vedo nessuno.”
“Là… dietro l’albero del pero.”
La mamma guardò in quella direzione.
“Oh, sì! Lo conosco. – esclamò – Conosco quel bambino. E’ il piccolo Christian.”
“Chi è Christian?”
“Il padroncino del pony. – spiegò la mamma – Certo gli dispiace averlo perduto e vorrà vederlo per l’ultima volta.”
“Se gli dispiace tanto per il suo pony, perché lo ha venduto al mio papà?” replicò la piccola.
“Gli zingari sono molto poveri e qualche volta sono costretti a vendere ciò che hanno… Papà dice che la mamma di Chistian è malata e necessita di cure… Forse Christian aveva solo il suo pony da vendere, per poter curare la sua mamma.”
“Per questo ha venduto il pony, allora?”
“Oh, sì, piccola mia! – sospirò la donna - Credo proprio di sì! Non tutti sono fortunati a questo mondo!”
“Povero Christian!” Beatrice divenne seria e taciturna.
“Beatrice, non vuoi provare la tua sella?” la raggiunse alle spalle la voce del papà che era salito di sopra e reggeva sulle braccia la sella con le borchie dorate.
“Sì, sì! Certo” rispose la ragazzina.
Scesero in cortile. Papà sellò il pony e mamma l’aiutò a montare. Tenendo l’animale per le briglie, le fecero fare un giretto lungo tutto il cortile e Beatrice sorrideva. Anzi, rideva forte, felice e divertita, dimentica di ogni cosa.
D’improvviso, però, zittì: il suo sguardo aveva incrociato quello del piccolo Christian, sempre nascosto dietro gli alberi del giardino. Le era parso che piangesse.
“Torniamo in casa. – disse – Fa freddo.”
Il mattino del giorno dopo, si svegliarono tutti di buon’ora. La mamma e il papà erano ansiosi di vedere ancora una volta il sorriso felice della loro figliola. La mamma, poi, doveva darle il suo regalo e non potevano essere che i finimenti per il pony: belli e riccamente lavorati.
Raggiunsero la camera di Beatrice, certi che la piccola fosse già sveglia e non si stupirono nel trovarla vuota: Beatrice aveva sicuramente raggiunto il suo cavallino.
“E’ già andata a trovare Gitano.” disse il papà.
“E’ da così tanto tempo che desiderava un pony. – fece eco la mamma – Credo che abbia dormito poco, questa notte.”
“Credo non abbia dormito affatto. Guarda il lettino: è disfatto, ma le lenzuola non sono state toccate. – osservò il papà poi, scorgendo l’espressione preoccupata della moglie – Sarà già nella stalla.” la rassicurò.
“Andiamo subito a vedere.” disse la donna, gettandosi la vestaglia sulle spalle e dirigendosi frettolosa verso la porta d’ingresso.
Trovarono la stalla vuota: Beatrice non c’era e neppure il pony e la mamma cominciò ad agitarsi.
Corsero entrambi fuori della stalla e solo allora si accorsero delle numerose orme sulla neve: orme di un cavallino e di due piedini. Erano fresche; quelle del giorno precedente erano coperte e confuse dalla neve caduta durante la notte.
Le seguirono.
“Portano fuori del cortile.” osservò sempre più preoccupata la mamma.
“Credo di sapere dove sono dirette.” disse il papà, ma anche la mamma aveva capito.
“Sono dirette al campo degli zingari.” esclamò.
Trovarono i gitani tutti riuniti intorno al carrozzone di Juan, il padre di Christian.
“Non è colpa nostra, senor.- lo zingaro si staccò dal gruppo, andando incontro ai due visitatori – Non è colpa nostra… di nessuno di noi.” tentò di spiegare con larghi gesti, come di chi teme di essere accusato di una colpa non commessa.
“E’ vero, papà!” anche Beatrice si allontanò dagli altri e raggiunse i genitori, che l’abbracciarono stretta; il papà si tolse la giacca da camera e con quella avvolse la sua bambina, coperta del solo pigiama.
”Ho riportato qui io Gitano. – riprese Beatrice -
Non volevo che il giorno di Natale un altro bimbo
fosse infelice per causa mia.”
“Vi restituirò il vostro dinero, senor. – riprese il gitano – Per guarire la mamma del mio Christian troverò dinero da qualche altra parte. La povera donna preferirebbe morire piuttosto che veder soffrire il suo ninyo.”
“Tieni pure i soldi, Juan. – esclamò il papà di Beatrice scuotendo il capo – Consideralo il regalo della mia bambina al tuo bambino, affinché possa curare la sua mamma. Non è giusto togliere ad un bambino il suo amico più caro.”
“Christian mi ha promesso che avrà sempre cura di Gitano e non gli farà mancare mai nulla.” interloquì Beatrice.
“Ne sono convinta. – la mamma la baciò sulla guancia – Nessuno, nemmeno tu, bambina mia, potresti amarlo e curarlo meglio di Christian.”
“Forse gli regalerò anche la sella.”
Il papà scosse il capo:
“Non sarà necessario, piccola. Ti comprerò un altro pony, ma non lo toglierò a nessun
STORIA, MITI e LEGGENDE
I N D I C E
-
- L'ASTUTO ULISSE DA CHI EREDITO' IL SUO PARTICOLARE "TALENTO"?
- IL PAREDRO... IL CONSORTE DELLA REGINA
- LA CRUENTA FINE DEL SOSTITUTO
- CARACTATO... IL RE DELLA GUERRIGLIA
- LA MALEDIZIONE DEI FARAONI
- CENTAURO.... LA LEGGENDA DELL'UOMO-CAVALLO
- LA VERA STORIA DEL MINOTAURO
- GLI ORACOLI
- LA SIBILLA CUMANA
- I LIBRI SIBILLINI
- LE AMAZZONI
- VALLEDA, SACERDOTESSA DRUIDA
- L'ANGELO DELLA MORTE
- LE VALCHIRIE
- LA LEGGENDA DI SGIFRIDO e del tesoro dei NIBELUNGHI
- SRUNILDE E SIGFRIDO
- CRIMILDE E SIGFRIDO
- LEGGENDA DI ECO E NARCISO
IL PAREDRO... il Consorte della Regina

Il Paredro della Regina... ossia il Principe Consorte.
L'epoca era quella matriarcale e il potere era nelle mani della Ninfa-tribale o, come si dirà più tardi, Regina. La successione al trono avveniva, dunque, per via femminile e matrilineare e il trono apparteneva alla figlia della Regina-Madre.
Per giungerere ad occupare quel trono le vie erano due: diritto di successione della più giovane delle figlie della Regina oppure disputa di una gara di corsa fra le ragazze più giovani e nobili.
Non esisteva un vero Re, poiché la Regina non aveva un vero sposo, ma solo amanti che si sceglieva fra le più bella e forte gioventù. Questi diventava Re-Sacro o Paredro, in quanto "marito" della Regina ma era destinato ad una morte rituale dopo un periodo di regno di 13 mesi, affinché il suo sangue fecondasse la terra.
Il sacrificio annuale del Re-Sacro si consumava nel giorno che seguiva il giorno più corto dell'anno terrestre (e non dell'anno lunare) e le modalità erano varie nelle diverse località. In Tracia, ad esempio, veniva fatto a pezzi da donne invasate e drogate; a Corinto era fatto sbalzare dal suo cocchio, preventivamente sabotato e moriva schiacciato dalle ruote e dagli zoccoli dei cavalli; in Tessaglia, invece, era fatto precipitare giù da una rupe. E ancora: gli si scagliava contro, all'altezza del tallone, una freccia avvelenata oppure lo si finiva a colpi di ascia.
Con le invasioni elleniche, qualcosa cominciò a cambiare nella società matriarcale locale, ma, con quelle, spietate e dure, che le seguirono, doriche ed achee, i costumi locali mutarono e si indebolirono radicalmente.
Dori ed Achei, pastori-guerrieri, giunti con Divinità maschili come Mitra e Varuna, vi trovarono Divinità femminili come Era ed Atena. Vi trovarono anche Regine, a capo della società, Sacerdotesse della Dea-Luna, mentre essi avevano per capi Re, adoratori di Zeus ed Apollo, che identificarono presto con le loro divinità.
Col tempo il Re-Sacro cominciò ad acquisire sempre maggiori poteri, giungendo perfino a sostituire la Regina in cerimonie rituali ed in alcune sue funzioni; in quelle occasioni indossava le vesti della Regina e i suoi ornamenti ed impugnava la "Falce Sacra" a forma di mezzaluna, simbolo della Dea-Luna.
Si spiegano così gli antichi bassorilievi che ritraggono il Re in abiti femminili.
Aumentando di prestigio e potere, il Re-Sacro si vide riconosciuto un periodo di regno superiore a 13 lune e precisamente un periodo di 100 lunazioni, pari a otto anni, alla fine dei quali, l'anno solare coincideva con l'anno lunare. Giunta quella data, però, il Re-Sacro doveva essere sacrificato. Qualcun altro, però, alla fine di ognuno degli otto anni all'interno delle 100 lunazioni, prendeva il suo posto nel sacrificio rituale: l'INTERREX, ossia il Sostituto. Di solito era un fanciullo nobile o addirittura figlio dello stesso Re; in seguito fu sostituito da un schiavo od ostaggio e infine da un animale, di preferenza un capretto.
Al tramonto del giorno in cui si celebrava il sacrificio, il Vecchio-Re fingeva di morire e si faceva interrare in un'urna e l'Interrex prendeva il suo posto. Per un giorno intero, questi ne assumeva tutte le cariche, giungendo prerfino sposare la Regina. Al tramonto del giorno successivo, però, egli veniva ucciso e il Vecchio-Re "sorgeva" dalla tomba, saliva sul cocchio accanto alla Regina e iniziava un nuovo regno di un anno accanto a lei, fino all'anno seguente in cui si ripeteva il rituale. Il cocchio dell'infelice fanciullo veniva distrutto e fatto a pezzi.
Spesso leggiamo di miti che parlano di amori tra Dei e Ninfe; molto probabilmente si tratta di riferimenti a matrimoni tra i principi conquistatori e le principesse o regine locali.
Era iniziato il Patriarcato e verso questi matrimoni dev'esserci stata ferrea opposizione da parte delle vecchie Regine; le principesse ereditarie, però, si mostrarono più benevoli verso i nuovi arrivati e li accettarono come "Figli della Dea-Luna", prendendoli come Paredri o Re-Sacri.
Questi nuovi Re-Sacri, però, non erano per nulla disposti a sacrificarsi e si mostrarono assai restii a sottomettersi alla propria sorte. Si ritiene che a rifiutarsi di morire sia stato per primo Enopione, re di Iria, che per otto anni si fece sostituire da un sostituto e alla fine uccise il suo successore, evitando la morte.
La vittoria e la conquista da parte del popolo Acheo pose termine a questa barbiaria: la Doppia Ascia Sacra della Dea-Luna Artemide e della Dea-Terra Rea, divenne la Folgore-Sacra di Giove e di Poseidone che, successivamente si trasformò nel Tridente-Sacro, nelle mani del Dio del Mare.
L'epoca era quella matriarcale e il potere era nelle mani della Ninfa-tribale o, come si dirà più tardi, Regina. La successione al trono avveniva, dunque, per via femminile e matrilineare e il trono apparteneva alla figlia della Regina-Madre.
Per giungerere ad occupare quel trono le vie erano due: diritto di successione della più giovane delle figlie della Regina oppure disputa di una gara di corsa fra le ragazze più giovani e nobili.
Non esisteva un vero Re, poiché la Regina non aveva un vero sposo, ma solo amanti che si sceglieva fra le più bella e forte gioventù. Questi diventava Re-Sacro o Paredro, in quanto "marito" della Regina ma era destinato ad una morte rituale dopo un periodo di regno di 13 mesi, affinché il suo sangue fecondasse la terra.
Il sacrificio annuale del Re-Sacro si consumava nel giorno che seguiva il giorno più corto dell'anno terrestre (e non dell'anno lunare) e le modalità erano varie nelle diverse località. In Tracia, ad esempio, veniva fatto a pezzi da donne invasate e drogate; a Corinto era fatto sbalzare dal suo cocchio, preventivamente sabotato e moriva schiacciato dalle ruote e dagli zoccoli dei cavalli; in Tessaglia, invece, era fatto precipitare giù da una rupe. E ancora: gli si scagliava contro, all'altezza del tallone, una freccia avvelenata oppure lo si finiva a colpi di ascia.
Con le invasioni elleniche, qualcosa cominciò a cambiare nella società matriarcale locale, ma, con quelle, spietate e dure, che le seguirono, doriche ed achee, i costumi locali mutarono e si indebolirono radicalmente.
Dori ed Achei, pastori-guerrieri, giunti con Divinità maschili come Mitra e Varuna, vi trovarono Divinità femminili come Era ed Atena. Vi trovarono anche Regine, a capo della società, Sacerdotesse della Dea-Luna, mentre essi avevano per capi Re, adoratori di Zeus ed Apollo, che identificarono presto con le loro divinità.
Col tempo il Re-Sacro cominciò ad acquisire sempre maggiori poteri, giungendo perfino a sostituire la Regina in cerimonie rituali ed in alcune sue funzioni; in quelle occasioni indossava le vesti della Regina e i suoi ornamenti ed impugnava la "Falce Sacra" a forma di mezzaluna, simbolo della Dea-Luna.
Si spiegano così gli antichi bassorilievi che ritraggono il Re in abiti femminili.
Aumentando di prestigio e potere, il Re-Sacro si vide riconosciuto un periodo di regno superiore a 13 lune e precisamente un periodo di 100 lunazioni, pari a otto anni, alla fine dei quali, l'anno solare coincideva con l'anno lunare. Giunta quella data, però, il Re-Sacro doveva essere sacrificato. Qualcun altro, però, alla fine di ognuno degli otto anni all'interno delle 100 lunazioni, prendeva il suo posto nel sacrificio rituale: l'INTERREX, ossia il Sostituto. Di solito era un fanciullo nobile o addirittura figlio dello stesso Re; in seguito fu sostituito da un schiavo od ostaggio e infine da un animale, di preferenza un capretto.
Al tramonto del giorno in cui si celebrava il sacrificio, il Vecchio-Re fingeva di morire e si faceva interrare in un'urna e l'Interrex prendeva il suo posto. Per un giorno intero, questi ne assumeva tutte le cariche, giungendo prerfino sposare la Regina. Al tramonto del giorno successivo, però, egli veniva ucciso e il Vecchio-Re "sorgeva" dalla tomba, saliva sul cocchio accanto alla Regina e iniziava un nuovo regno di un anno accanto a lei, fino all'anno seguente in cui si ripeteva il rituale. Il cocchio dell'infelice fanciullo veniva distrutto e fatto a pezzi.
Spesso leggiamo di miti che parlano di amori tra Dei e Ninfe; molto probabilmente si tratta di riferimenti a matrimoni tra i principi conquistatori e le principesse o regine locali.
Era iniziato il Patriarcato e verso questi matrimoni dev'esserci stata ferrea opposizione da parte delle vecchie Regine; le principesse ereditarie, però, si mostrarono più benevoli verso i nuovi arrivati e li accettarono come "Figli della Dea-Luna", prendendoli come Paredri o Re-Sacri.
Questi nuovi Re-Sacri, però, non erano per nulla disposti a sacrificarsi e si mostrarono assai restii a sottomettersi alla propria sorte. Si ritiene che a rifiutarsi di morire sia stato per primo Enopione, re di Iria, che per otto anni si fece sostituire da un sostituto e alla fine uccise il suo successore, evitando la morte.
La vittoria e la conquista da parte del popolo Acheo pose termine a questa barbiaria: la Doppia Ascia Sacra della Dea-Luna Artemide e della Dea-Terra Rea, divenne la Folgore-Sacra di Giove e di Poseidone che, successivamente si trasformò nel Tridente-Sacro, nelle mani del Dio del Mare.
La cruenta fine del Sostituto

Il termine sostituto indica oggi semplicemente una persona che svolge mansioni al posto di un’altra.
Nelle antiche culture, però, all’epoca del Matriarcato, il Sostituto era una figura assai tragica ed infelice.
Era al centro di una consuetudine davvero cruenta: così in Egitto come in Mesopotamia o Hattusa… Roma si salvò solo perché la sua storia è più recente.
Il Grecia il Sostituto si chiamava Interrex ed era quasi sempre un ragazzo sui dieci anni, perché tanti erano gli anni di regno del Paredro.
Oggi diremmo: Principe Consorte.
Secondo i costumi dell’epoca la Regina si sceglieva, tra i giovani più forti e gagliardi, un Re-Sacro, il Paredro, per l’appunto, per procreare e regnare con lui fino a che questi avesse conservato forze e vigore. Dopo egli veniva ucciso e il suo sangue sparso sui campi per renderli fecondi.
Dieci anni. Tale era il tempo concesso ad un Paredro.
Questo fino a quando non arrivò qualcuno che si rifiutò di sottostare al sacrificio e pretese una vittima in sua “sostituzione”.
Quel qualcuno si chiamava Enapione e pare fosse uno dei nipoti del famoso Minosse.
Egli si rifiutò di morire, nonostante che il nuovo pretendente della Regina avesse, secondo le Leggi, superato le prove a cui era stato sottoposto e lo avesse vinto in regolare combattimento. (lotta libera, presumibilmente).
Enapione si nascose in una cripta facendosi credere morto, ma “resuscitò” opportunamente (con l’aiuto di sostenitori) e in sua vece pretese il sacrificio di un fanciullo: l’ Interrex , ossia il Sostituto.
I Sostituti erano sempre fanciulli sui dieci anni, schiavi, prigionieri o ragazzi dotati e, non raramente, erano addirittura i figli dello stesso Re-Sacro in carica.
Questo potrebbe dar luce a qualche mito o casi di parricidio da parte di principi-eroi, che ci appaiono incomprensibile, ma di cui la storia della Grecia Arcaica e perfino Minoica e Micenea, abbonda.
L’Interrex veniva insediato sul trono con una cerimonia assai festosa. Regnava per un giorno, durante il quale gli era permessa ogni cosa, poi veniva drogato e ucciso.
Il Paredro tornava sul trono al fianco della Regina (il cui potere, però, cominciava a mostrare primi segni di debolezza)… fino a quando un nuovo pretendente, più forte e vigoroso, non fosse riuscito a toglierlo di mezzo.
Non si sa per quanto tempo tale cruente costume abbia continuato a mietere fanciulli. Ad un certo momento della storia, però, il sacrificio dei fanciulli verrà sostituito da quello di un animale: capro o toro.
O, come accadde in Egitto, da una cerimonia detta Zed o Giubileo: un rituale magico attraverso cui il Sovrano ritrovava energia e vigore.
A proposito di Giubileo, la regina Elisabetta II d’Inghilterra ha celebrato da poco il suo e il Papa si appresta a celebrare il proprio.
Pratiche moderne, dunque, che affondano le radici in pratiche antiche.
CARACTATO... il Re della guerriglia

Caractato! Il "barbaro" che anche da sconfitto "conquistò" Roma.
Tacito ne parla nel Libro XII dei suoi "ANNALI" con accenti di sincera ammirazione.
Siamo nel 51 a.C. - Galles Meridionale.
I Siluri, popolo ostile e bellicoso, sono per anni la spina nel fianco dei Romani. Comandati da re Caractato, tengono in scacco le Legioni Romane da ben nove anni, conseguendo più vittorie che sconfitte.
Fiero, ed irriducibile, non si riesce a sottometterlo né con la forza, né con le promesse. Perfettamente consapevole della inferiorità numerca del suo esercito, questo barbaro ribelle riesce a sottrarre al servaggio la sua gente tenendo in scacco l'avversario con una tecnica assolutamente sconosciuta ai Romani..
La sua strategia militare è nuova ed insolita per i Romani, abituati a fronteggiare l'avversario. Ma Caractato ha inventato un nuovo modo di combattere: la guerriglia. Non affronta il nemico a viso aperto e con tutte le forze, ma lo coglie di sorpresa con un manipolo di uomini, favorito dalla impraticabilità del territorio su cui si muove.
Per la battaglia decisiva il grande guerrigliero sceglie un territorio assai impervio, uno spazio in cui l'accesso è difficile quanto l'uscita: alle spalle ci sono ripide montagne e davanti un fiume con difficili guadi.
Dall'altra parte, i Romani spiegano la Legione di Publio Ostorio Scapola.
Dopo un combattimento violentissimo, che costerà ad Ostorio un vero massacro, i valorosi "guerriglieri" sono costretti a soccombere al valore dei Romani ed alla invincibile "Testuggine" romana.
Caractato riesce a fuggire, ma la moglie e la figlia sono fatte prigioniere. Egli, allora, cerca rifugio e protezione presso il popolo dei Briganti, ma la regina Cartimandua, appena lo ha sotto la sua tenda, cerca di sedurlo; il grande guerrigliero la respinge e la donna lo consegna ai Romani.
A Roma, il nome del principe dei Siluri é ben noto; le imprese del ribelle invincibile ed invisibile sono già leggenda e tutti attendono impazienti l'arrivo dell'uomo che per quasi dieci anni si é beffato di Roma.
Lo stesso imperatore Claudio é impaziente di incontrarlo e, come ebbe a sottolineare Tacito,
nei suoi " Annali", "per esaltare la propria dignità, aumentò la gloria del vinto."
L'Imperatore organizza un vero spettacolo per il popolo di Roma durante il quale fa sfilare, legato al carro, re Caractato e la sua famiglia.
E ancora una volta, il grande "guerrigliero" mostra il suo valore. Invece di implorare clemenza, giunto sotto la tribuna imperiale, egli tiene un vibrante discorso:
".................. Se fossi trascinato davanti a te - dice all'Imperatore - senza opporre resistenza, né la mia sorte, né la tua gloria avrebbe acquistato splendore: al mio supplizio seguirebbe l'oblio, ma se mi lasci vivere, sarò per sempre un esempio della tua clemenza."
Caractato ha salva la vita e con lui la sua famiglia e gli altri.
Bello, affascinante, la parola facile, il principe dei Siluri non tarda a conquistare Roma ed a diventare l'ospite più desiderato dei "salotti" delle nobili matrone e la bellissima figlia, con il nome romanizzato di Claudia, viene fatta sposare ad uno dei figli del nobile Pudente.
Tacito ne parla nel Libro XII dei suoi "ANNALI" con accenti di sincera ammirazione.
Siamo nel 51 a.C. - Galles Meridionale.
I Siluri, popolo ostile e bellicoso, sono per anni la spina nel fianco dei Romani. Comandati da re Caractato, tengono in scacco le Legioni Romane da ben nove anni, conseguendo più vittorie che sconfitte.
Fiero, ed irriducibile, non si riesce a sottometterlo né con la forza, né con le promesse. Perfettamente consapevole della inferiorità numerca del suo esercito, questo barbaro ribelle riesce a sottrarre al servaggio la sua gente tenendo in scacco l'avversario con una tecnica assolutamente sconosciuta ai Romani..
La sua strategia militare è nuova ed insolita per i Romani, abituati a fronteggiare l'avversario. Ma Caractato ha inventato un nuovo modo di combattere: la guerriglia. Non affronta il nemico a viso aperto e con tutte le forze, ma lo coglie di sorpresa con un manipolo di uomini, favorito dalla impraticabilità del territorio su cui si muove.
Per la battaglia decisiva il grande guerrigliero sceglie un territorio assai impervio, uno spazio in cui l'accesso è difficile quanto l'uscita: alle spalle ci sono ripide montagne e davanti un fiume con difficili guadi.
Dall'altra parte, i Romani spiegano la Legione di Publio Ostorio Scapola.
Dopo un combattimento violentissimo, che costerà ad Ostorio un vero massacro, i valorosi "guerriglieri" sono costretti a soccombere al valore dei Romani ed alla invincibile "Testuggine" romana.
Caractato riesce a fuggire, ma la moglie e la figlia sono fatte prigioniere. Egli, allora, cerca rifugio e protezione presso il popolo dei Briganti, ma la regina Cartimandua, appena lo ha sotto la sua tenda, cerca di sedurlo; il grande guerrigliero la respinge e la donna lo consegna ai Romani.
A Roma, il nome del principe dei Siluri é ben noto; le imprese del ribelle invincibile ed invisibile sono già leggenda e tutti attendono impazienti l'arrivo dell'uomo che per quasi dieci anni si é beffato di Roma.
Lo stesso imperatore Claudio é impaziente di incontrarlo e, come ebbe a sottolineare Tacito,
nei suoi " Annali", "per esaltare la propria dignità, aumentò la gloria del vinto."
L'Imperatore organizza un vero spettacolo per il popolo di Roma durante il quale fa sfilare, legato al carro, re Caractato e la sua famiglia.
E ancora una volta, il grande "guerrigliero" mostra il suo valore. Invece di implorare clemenza, giunto sotto la tribuna imperiale, egli tiene un vibrante discorso:
".................. Se fossi trascinato davanti a te - dice all'Imperatore - senza opporre resistenza, né la mia sorte, né la tua gloria avrebbe acquistato splendore: al mio supplizio seguirebbe l'oblio, ma se mi lasci vivere, sarò per sempre un esempio della tua clemenza."
Caractato ha salva la vita e con lui la sua famiglia e gli altri.
Bello, affascinante, la parola facile, il principe dei Siluri non tarda a conquistare Roma ed a diventare l'ospite più desiderato dei "salotti" delle nobili matrone e la bellissima figlia, con il nome romanizzato di Claudia, viene fatta sposare ad uno dei figli del nobile Pudente.
La maledizione dei Faraoni

Qualcuno crede ancora nella “Maledizione dei Faraoni”? Probabilmente sì!
C’è qualcosa di vero? Naturalmente no!
Come e quando è sorta questa leggenda? Che cosa l’ha alimentata così a lungo?
Tutto cominciò quando l’archeologo inglese Haward Carter scoprì la tomba del celeberrimo faraone Thut-ank-Ammon, durante una spedizione archeologica finanziata dal magnate americano
Rimanderemo ad altra occasione la straordinaria e clamorosa scoperta di questa tomba e resteremo nell’ambito della più colossale “bufala” (così la chiameremmo oggi), architettata ad arte per sfruttare un’inaspettata ingenuità, dilagante nel momento intero.
Innanzitutto bisogna riconoscere l’uso che nel Mondo Antico si faceva di formule di maledizione per colpire o annientare un nemico. (uso che purtroppo persiste ancor oggi: basta seguire qualche programma televisivo)
Una delle forme più comuni di Maledizione, presso l’antico popolo egizio, era quello di scrivere una formula magica su un vaso o un coccio, facendola seguire dal nome del malcapitato: una formula con cui, naturalmente, si augurava ogni sorta di sciagura. Nel corso di una cerimonia si mandava in frantumi il vaso, accompagnando l’atto con le Parole Magiche: le He-kau.
Studiosi ed archeologi moderni, sia quelli seri che quelli che seri non erano affatto, conoscevano perfettamente l’uso di quelle pratiche.
Una di queste tavolette maldicenti fu trovata da un assistente di Carter. Fu dapprima catalogata come tutti gli altri reperti, ma in seguito, ripulita del terriccio, venne decifrata.
I geroglifici recitavano così:
“la morte colga con le sue ali
chiunque disturberà il sonno del Faraone.”
Fra il personale addetto agli scavi si diffuse un’immediata inquietudine: consapevoli delle paure ancestrali degli uomini del posto (manovali, sterratori, portatori) in primo momento si cercò di tenere segreta la notizia di quel ritrovamento e si fece perfino scomparire il reperto. Ancora oggi non si sa dove sia… né se sia davvero esistito.
Si trattava, però, di una notizia davvero ghiotta; impossibile da nascondere. Non passò molto tempo, perciò, prima che arrivasse a gente di pochi scrupoli e con conoscenze archeologiche e scientifiche praticamente nulle: avventurieri, truffatori e, immancabilmente, esoterici.
Quasi ad avvalorare le teorie di costoro, che sostenevano l’esistenza di una “maledizione”, una seconda iscrizione maldicente comparve all’interno della camera principale del sepolcro e recitava pressappoco così:
“Io respingo i ladri di tombe
e proteggo questa hut-ka (sepolcro)”
La notizia fece il giro del mondo e la leggenda della “Maledizione di Thut-ank-Ammon” ebbe inizio.
Come resistere a quell’affascinante storia di fantasmi e mistero?
Tredici, delle ventidue persone che componevano la Spedizione-Carter, persero la vita, si disse. Si disse e si ripeté per anni in tutto il mondo e in tutte le lingue, alimentando una superstizione che aveva il fascino del più profondo mistero. Si alimentò ad arte un’inquietudine ed una paura sempre crescente.
“Chiunque entri a contatto – si diceva – con la tomba del faraone Thut-ank-Ammon, resta vittima della sua Maledizione.”
Quel che si ometteva di dire, però, era il fatto che tutte quelle mori erano spiegabili, perché provocate da fattori naturali (cattiva igiene, malaria, morsi di serpenti, ignoranza). Si omise, ad esempio, di precisare che molte di quelle morti erano avvenute in tempi molto successivi e per cause tutt’altro che misteriose.
La leggenda della Maledizione, però, era estremamente affascinante e quel fascino catturava molti… Troppi, forse. Catturò letteratura e cinema. Soprattutto il cinema, che girò una pellicola dal titolo suggestivo: “La Mummia”, che fece da battistrada ad un filone di genere nuovo e accattivante: il “fantasy”.
Cos’è, dunque, la “Maledizione dei Faraoni”?
Gli studiosi conoscono perfettamente la profonda religiosità dell’antico popolo egizio: religiosità permeata di magia e superstizione, prodigi e misteri.
Una elite di persone, però, si staccava dalla moltitudine e nella misura in cui la Conoscenza cresceva (Scienza, Astronomia, Matematica, Medicina, Architettura, ecc) crescevano anche il loro sapere e il divario con un popolo lasciato nell’ignoranza. ( come in tutte le culture, naturalmente. Non esclusa la nostra)
Gli studiosi conoscono anche lo sforzo costante degli antichi Sacerdoti egizi per proteggere le tombe da profanatori e saccheggiatori, in azione fin dai tempi più remoti.
Congegni, trabocchetti, trappole: nulla di tutto ciò avrebbe tenuto lontano ladri audaci e con nulla da perdere.
Una sola forza poteva trattenerli e fermarli. I Sacerdoti egizi la conoscevano bene: la paura. La paura alimentata ad arte dalla superstizione; la paura dell’inspiegabile e dell’ignoto. In altre parole: la paura di una “maledizione”.
Per farlo, però, bisognava rendere credibili ed efficaci le minacce di una “maledizione”.
Quali mezzi avevano, gli antichi Sacerdoti egizi, per farlo? Possedevano conoscenze scientifiche e tecniche totalmente ignote al popolo e che custodivano assai gelosamente.
Un esempio? Gli antichi Sacerdoti egizi conoscevano gli effetti (ignorandone la causa) di sostanze radioattive come il radio o l’uranio; soprattutto quest’ultimo, che trovavano in profondità nelle miniere d’oro. Conoscevano le proprietà allucinogene o letali di certe piante e sostanze: oppio, aconito, cicuta, arsenico, i cui fiori dai petali colorati rallegravano i famosi “giardini di Hathor”… e non solo quelli.
Nessun congegno, per quanto pericoloso, poteva essere efficace quanto un’allucinazione o una morte inspiegabile. Se ancora oggi esistono persone ingenue che credono nelle maledizioni e si affidano a responsi, (lo attesta la numerosa clientela di santoni, veggenti e chiromanti) come stupirsi che in un passato così remoto ne fosse vittima gente ignorante e superstiziosa?
Ed ecco la domanda cruciale: che cos’è, in realtà, la famosa “maledizione dei Faraoni”?
Sono le conoscenze scientifiche e tecniche che gli Antichi Egizi possedevano e mettevano in pratica per proteggere le loro tombe.
Com’è nata, in tempi moderni, quella leggenda?
Nacque dall’incredibile interesse mondiale sorto intorno a quella tomba, la più ricca mai scoperta prima, e fu alimentata da una stampa irresponsabile e da fantasiosi narratori, i quali cavalcarono l’emotivita, l’ignoranza e quell’inconscio desiderio di favole che è in fondo allo spirito di ognuno di noi. Esoterici e pseudo-studiosi fecero il resto, proponendo le più stravaganti ed improbabili fantasie e spacciandole per teorie che… se non sbaglio, sono cose che vanno dimostrate.
La “maledizione dei Faraoni” non è neppure una teoria, ma solo una fantasia per tutti quelli che credono in quel genere di favole.
CENTAURO - la leggenda dell'Uomo-cavallo

Letteralmente il termine Centauro significa: “colui che trafigge il toro”, dall’etimo classico Kentauroi; un altro etimo suggerisce, invece: “gruppo armato di cento uomini”.
Qualunque sia il significato del termine, il mito li vuole d’aspetto davvero singolare: uomini fino all’ombelico e cavalli per il resto del corpo. Il mito li vuole anche rissosi, lussuriosi e sempre pronti a saltare addosso alla prima donna che capitava loro davanti.
Omero li chiama: “villose bestie selvagge”, per il loro aspetto e le attività orgiastiche ed erotiche.
La leggenda sulla loro origine farebbe arrossire gli autori di erotismo più audace. Vediamo perché.
Il capostipite fu un certo Issione, re dei Lapiti, tipo poco raccomandabile, per giunta assassino.
Giove, re degli Dei, pur contro il parere degli altri Immortali, non solo non lo punì per il suo reato, ma lo invitò alla sua tavola.
A Issione piacevano molto le donne, proprio come a Giove; per questo, forse, non mancò di fare certe proposte addirittura a Giunone, sposa del suo divino ospite.
Giove scoprì presto le intenzioni del suo ingrato ospite e per metterlo alla prova dette ad una nuvola le sembianze di Giunone.
Annebbiato dal vino e dalla lussuria, Issione sfogò le sue brame sul simulacro di nuvola; dall’inconsueto rapporto nacque Centauro che, diventato adulto, dette sfogo alle sue insane tendenze sessuali e si accoppiò con le cavalle del Monte Pelio, che gli generarono i Centauri, creature metà uomini e metà cavalli.
Questo il mito. La realtà, naturalmente, era un’altra.
I Centauri erano uomini barbuti e selvaggi, appartenenti a tribù delle montagne della Grecia orientale, i quali vivevano in tale simbiosi con i loro cavalli, da sembrare una sola cosa con il proprio animale.
Nacque così la leggenda degli Uomini-cavallo.
Letteralmente il termine Centauro significa: “colui che trafigge il toro”, dall’etimo classico Kentauroi; un altro etimo suggerisce, invece: “gruppo armato di cento uomini”.
Qualunque sia il significato del termine, il mito li vuole d’aspetto davvero singolare: uomini fino all’ombelico e cavalli per il resto del corpo. Il mito li vuole anche rissosi, lussuriosi e sempre pronti a saltare addosso alla prima donna che capitava loro davanti.
Omero li chiama: “villose bestie selvagge”, per il loro aspetto e le attività orgiastiche ed erotiche.
La leggenda sulla loro origine farebbe arrossire gli autori di erotismo più audace. Vediamo perché.
Il capostipite fu un certo Issione, re dei Lapiti, tipo poco raccomandabile, per giunta assassino.
Giove, re degli Dei, pur contro il parere degli altri Immortali, non solo non lo punì per il suo reato, ma lo invitò alla sua tavola.
A Issione piacevano molto le donne, proprio come a Giove; per questo, forse, non mancò di fare certe proposte addirittura a Giunone, sposa del suo divino ospite.
Giove scoprì presto le intenzioni del suo ingrato ospite e per metterlo alla prova dette ad una nuvola le sembianze di Giunone.
Annebbiato dal vino e dalla lussuria, Issione sfogò le sue brame sul simulacro di nuvola; dall’inconsueto rapporto nacque Centauro che, diventato adulto, dette sfogo alle sue insane tendenze sessuali e si accoppiò con le cavalle del Monte Pelio, che gli generarono i Centauri, creature metà uomini e metà cavalli.
Questo il mito. La realtà, naturalmente, era un’altra.
I Centauri erano uomini barbuti e selvaggi, appartenenti a tribù delle montagne della Grecia orientale, i quali vivevano in tale simbiosi con i loro cavalli, da sembrare una sola cosa con il proprio animale.
Nacque così la leggenda degli Uomini-cavallo.
Qualunque sia il significato del termine, il mito li vuole d’aspetto davvero singolare: uomini fino all’ombelico e cavalli per il resto del corpo. Il mito li vuole anche rissosi, lussuriosi e sempre pronti a saltare addosso alla prima donna che capitava loro davanti.
Omero li chiama: “villose bestie selvagge”, per il loro aspetto e le attività orgiastiche ed erotiche.
La leggenda sulla loro origine farebbe arrossire gli autori di erotismo più audace. Vediamo perché.
Il capostipite fu un certo Issione, re dei Lapiti, tipo poco raccomandabile, per giunta assassino.
Giove, re degli Dei, pur contro il parere degli altri Immortali, non solo non lo punì per il suo reato, ma lo invitò alla sua tavola.
A Issione piacevano molto le donne, proprio come a Giove; per questo, forse, non mancò di fare certe proposte addirittura a Giunone, sposa del suo divino ospite.
Giove scoprì presto le intenzioni del suo ingrato ospite e per metterlo alla prova dette ad una nuvola le sembianze di Giunone.
Annebbiato dal vino e dalla lussuria, Issione sfogò le sue brame sul simulacro di nuvola; dall’inconsueto rapporto nacque Centauro che, diventato adulto, dette sfogo alle sue insane tendenze sessuali e si accoppiò con le cavalle del Monte Pelio, che gli generarono i Centauri, creature metà uomini e metà cavalli.
Questo il mito. La realtà, naturalmente, era un’altra.
I Centauri erano uomini barbuti e selvaggi, appartenenti a tribù delle montagne della Grecia orientale, i quali vivevano in tale simbiosi con i loro cavalli, da sembrare una sola cosa con il proprio animale.
Nacque così la leggenda degli Uomini-cavallo.
Letteralmente il termine Centauro significa: “colui che trafigge il toro”, dall’etimo classico Kentauroi; un altro etimo suggerisce, invece: “gruppo armato di cento uomini”.
Qualunque sia il significato del termine, il mito li vuole d’aspetto davvero singolare: uomini fino all’ombelico e cavalli per il resto del corpo. Il mito li vuole anche rissosi, lussuriosi e sempre pronti a saltare addosso alla prima donna che capitava loro davanti.
Omero li chiama: “villose bestie selvagge”, per il loro aspetto e le attività orgiastiche ed erotiche.
La leggenda sulla loro origine farebbe arrossire gli autori di erotismo più audace. Vediamo perché.
Il capostipite fu un certo Issione, re dei Lapiti, tipo poco raccomandabile, per giunta assassino.
Giove, re degli Dei, pur contro il parere degli altri Immortali, non solo non lo punì per il suo reato, ma lo invitò alla sua tavola.
A Issione piacevano molto le donne, proprio come a Giove; per questo, forse, non mancò di fare certe proposte addirittura a Giunone, sposa del suo divino ospite.
Giove scoprì presto le intenzioni del suo ingrato ospite e per metterlo alla prova dette ad una nuvola le sembianze di Giunone.
Annebbiato dal vino e dalla lussuria, Issione sfogò le sue brame sul simulacro di nuvola; dall’inconsueto rapporto nacque Centauro che, diventato adulto, dette sfogo alle sue insane tendenze sessuali e si accoppiò con le cavalle del Monte Pelio, che gli generarono i Centauri, creature metà uomini e metà cavalli.
Questo il mito. La realtà, naturalmente, era un’altra.
I Centauri erano uomini barbuti e selvaggi, appartenenti a tribù delle montagne della Grecia orientale, i quali vivevano in tale simbiosi con i loro cavalli, da sembrare una sola cosa con il proprio animale.
Nacque così la leggenda degli Uomini-cavallo.
La vera storia del Minotauro

Conosciamo tutti la leggenda del Minotauro di Creta, ma, per chi l’avesse scordata, eccola, così come ci è stata tramandata dalla mitologia tradizionale.
Minosse, figlio di Giove, per legittimare il suo diritto di successione al trono di Creta, chiese a Poseidone, Dio del Mare, una degna vittima da sacrificare durante la Cerimonia.
Dalle onde del mare, Poseidone fece emergere uno splendido toro bianco, così bello che Minosse volle tenerlo per sé e offrire in sacrificio, al suo posto, un toro comune.
Brutto affare, offendere la suscettibilità di una Divinità: Poseidone, infatti, se la prese così tanto, che per vendicarsi dell’affronto, ne escogitò una davvero bella: scatenò in Pasifae, sposa di Minosse, (donna non propriamente fedele, come anche il marito, d’altronde), una passione contro natura per lo splendido animale.
Ah… questi popoli antichi!
Come fare per soddisfare l’insano desiderio?
Semplice! Ci pensò quel geniale di un architetto, ospite del Re, che allietava la corte con i suoi giocattoli meccanici.
Parlo del famoso Dedalo, noto a tutti.
L’ingegnoso artista trovò subito il sistema: costruì la sagoma di una mucca in cui fece sistemare quella pazza della Regina; la rivestì di pelle bovina e la fece porre in bella vista sul prato dove pascolava il bel Tauros. (questo il nome imposto allo splendido toro).
Quel che accadde, lo lasciamo all’immaginazione. Quello che accadde invece alla Regina dopo nove mesi, fu di mettere al mondo un bel bimbo con la testa di toro: il Minotauro, per l’appunto, a cui fu imposto il nome di Asterione.
L’increscioso fatto dispiacque così tanto a Minosse (cornificato già troppo spesso dalla moglie, ma mai prima con un toro) che impose a Dedalo di costruire un Labirinto in cui fece rinchiudere il Minotauro, la regina Pasifae e lo stesso Dedalo, che in seguito riuscì a fuggire, ma… quella è un’altra storia.
Il Minotauro era nutrito con carne umana, procurata dagli Ateniesi fino all’arrivo di un eroe di nome Teseo… ma anche questa è un’altra storia.
Interessante, invece, è sapere chi era davvero il Minotauro, tenendo presente che sul bacino Mediterraneo si affacciavano Popoli nella cui cultura era sempre presente il “culto del toro”: ricordiamo l’orientale Mitra, l’egiziano Hapy, ecc…
Già ai tempi di Plutarco, quella figura da “Sodomia”, era stata riscattata.
Il Minotauro, ossia Asterione, in realtà, era nato da una relazione tra la regina Pasifae e il bel Tauros, generale di re Minosse e atleta di tauromachia. (spettacolo con i tori)
Sempre di corna si trattava, ma non di corna animali!
Secondo questa più accettabile versione dei fatti, poco conosciuta perché non piccante come la prima e per questo meno capace di catturare quel “lato oscuro” che è sempre stato in ogni essere umano, Teseo combattè non con il mostruoso Minotauro, ma con suo padre Tauros e lo vinse in un regolare incontro.
Le leggende, soprattutto quelle nere e scabrose, sono lunghe a morire. Ecco perché oggi tutti conoscono il Minotauro, figlio di un toro, e ignorano Asterione, figlio di un atleta.
Minosse, figlio di Giove, per legittimare il suo diritto di successione al trono di Creta, chiese a Poseidone, Dio del Mare, una degna vittima da sacrificare durante la Cerimonia.
Dalle onde del mare, Poseidone fece emergere uno splendido toro bianco, così bello che Minosse volle tenerlo per sé e offrire in sacrificio, al suo posto, un toro comune.
Brutto affare, offendere la suscettibilità di una Divinità: Poseidone, infatti, se la prese così tanto, che per vendicarsi dell’affronto, ne escogitò una davvero bella: scatenò in Pasifae, sposa di Minosse, (donna non propriamente fedele, come anche il marito, d’altronde), una passione contro natura per lo splendido animale.
Ah… questi popoli antichi!
Come fare per soddisfare l’insano desiderio?
Semplice! Ci pensò quel geniale di un architetto, ospite del Re, che allietava la corte con i suoi giocattoli meccanici.
Parlo del famoso Dedalo, noto a tutti.
L’ingegnoso artista trovò subito il sistema: costruì la sagoma di una mucca in cui fece sistemare quella pazza della Regina; la rivestì di pelle bovina e la fece porre in bella vista sul prato dove pascolava il bel Tauros. (questo il nome imposto allo splendido toro).
Quel che accadde, lo lasciamo all’immaginazione. Quello che accadde invece alla Regina dopo nove mesi, fu di mettere al mondo un bel bimbo con la testa di toro: il Minotauro, per l’appunto, a cui fu imposto il nome di Asterione.
L’increscioso fatto dispiacque così tanto a Minosse (cornificato già troppo spesso dalla moglie, ma mai prima con un toro) che impose a Dedalo di costruire un Labirinto in cui fece rinchiudere il Minotauro, la regina Pasifae e lo stesso Dedalo, che in seguito riuscì a fuggire, ma… quella è un’altra storia.
Il Minotauro era nutrito con carne umana, procurata dagli Ateniesi fino all’arrivo di un eroe di nome Teseo… ma anche questa è un’altra storia.
Interessante, invece, è sapere chi era davvero il Minotauro, tenendo presente che sul bacino Mediterraneo si affacciavano Popoli nella cui cultura era sempre presente il “culto del toro”: ricordiamo l’orientale Mitra, l’egiziano Hapy, ecc…
Già ai tempi di Plutarco, quella figura da “Sodomia”, era stata riscattata.
Il Minotauro, ossia Asterione, in realtà, era nato da una relazione tra la regina Pasifae e il bel Tauros, generale di re Minosse e atleta di tauromachia. (spettacolo con i tori)
Sempre di corna si trattava, ma non di corna animali!
Secondo questa più accettabile versione dei fatti, poco conosciuta perché non piccante come la prima e per questo meno capace di catturare quel “lato oscuro” che è sempre stato in ogni essere umano, Teseo combattè non con il mostruoso Minotauro, ma con suo padre Tauros e lo vinse in un regolare incontro.
Le leggende, soprattutto quelle nere e scabrose, sono lunghe a morire. Ecco perché oggi tutti conoscono il Minotauro, figlio di un toro, e ignorano Asterione, figlio di un atleta.
Gli Oracoli

GLI ORACOLI
L’ Oracolo, recita il dizionario, è la risposta profetica data da Sacerdoti e Sacerdotesse pagane, in nome di una Divinità, ai fedeli che domandavano consigli o pronostici sulle loro imprese. Il Dizionario dice anche che una Divinazione è una verità rivelata.
Fin dai tempi più remoti, l’uomo ha cercato sempre, ed in tutti i modi, di conoscere il proprio futuro… in realtà, lo fanno anche gli uomini moderni, nell’era tecnologica.
Coloro che possedevano il dono della Divinazione, uomini e donne di grande sapere ed autorità, godevano di grande prestigio e perfino di potere politico decisionale.
Profeta, Indovino, Pizia, Sibilla, Pitonessa: questi i l loro nome.
Il misterioso, l’oscuro, l’incomprensibile è definito Sibillino, proprio dalla Sibilla: donna che conosceva la volontà divina.
L’ Oracolo, recita il dizionario, è la risposta profetica data da Sacerdoti e Sacerdotesse pagane, in nome di una Divinità, ai fedeli che domandavano consigli o pronostici sulle loro imprese. Il Dizionario dice anche che una Divinazione è una verità rivelata.
Fin dai tempi più remoti, l’uomo ha cercato sempre, ed in tutti i modi, di conoscere il proprio futuro… in realtà, lo fanno anche gli uomini moderni, nell’era tecnologica.
Coloro che possedevano il dono della Divinazione, uomini e donne di grande sapere ed autorità, godevano di grande prestigio e perfino di potere politico decisionale.
Profeta, Indovino, Pizia, Sibilla, Pitonessa: questi i l loro nome.
Il misterioso, l’oscuro, l’incomprensibile è definito Sibillino, proprio dalla Sibilla: donna che conosceva la volontà divina.
La Sibilla Cumana

La Sibilla cumana è una delle figure più inquietanti, misteriose ed affascinanti della mitologia greco-romana.
Sibille, erano chiamate le sacerdotesse di Apollo, il bellissimo Dio del Sole, in possesso di poteri divinatori concessi loro dalla Divinità.
Vivevano in grotte oscure o in prossimità di fonti sacre e sul significato del loro nome, c’è la stessa oscurità e lo stesso alone di mistero che circondava la loro figura.
“Vergine Oscura”, secondo alcuni, il significato del termine Sibilla, proprio perché vivevano in luoghi oscuri e misteriosi; inaccessibili. E proprio per questo, e per i loro infallibili responsi, le Sibille erano assai temute e rispettate.
La Sibilla era “posseduta” da potere divino che acquisiva attraverso il respiro di vapori che uscivano da fenditure del terreno nei pressi della grotta in cui viveva (l’Antro della Sibilla) e con libagioni di acqua di Fonte Sacra.
Masticava foglie di lauro, pianta sacra al dio Apollo, atto con cui suggellava la sua unione con la Divinità.
Come ogni altra Sacerdotessa, la Sibilla era la “sposa” del Dio, ma non si trattava di amplesso fisico: la Sibilla, infatti, conservava intatta la sua verginità, poiché “l’amore” di Apollo nei suoi confronti era solamente un “soffio” trasfuso in lei, conservandola nello stato di verginità.
(il concetto di Vergine-feconda ha sempre affascinato l’uomo)
La Sibilla cumana, però, conobbe un ben altro destino: beffardo e crudele.
La leggenda narra che una di queste Sibille giunse a Cuma, in Campania, nei pressi dei Campi Flegrei, dalla città greca di Eritre. Il suo nome era Deifobe.
Era così bella, che Apollo se ne innamorò follemente e le promise, in cambio di sesso, che avrebbe esaudito ogni suo desiderio.
La Sibilla si chinò a raccogliere un pugno di terra e chiese ad Apollo di concederle di vivere tanti anni quanti erano i granelli di terra raccolti.
Apollo acconsentì, ma la ragazza gli si rifiutò.
La vendetta di Apollo fu terribile: le concesse di vivere, ma le negò la giovinezza: settecento anni.
Con il passar degli anni, Deifobe divenne sempre vecchia e più piccola; quanto una cicala.
A chi le chiedeva quale fosse il suo desiderio, rispondeva con voce triste e sconsolata:
“La morte!”
Apollo, infine le concesse di morire.
Morale?… Forse che una vecchiaia troppo lunga è anche troppo triste!
Sibille, erano chiamate le sacerdotesse di Apollo, il bellissimo Dio del Sole, in possesso di poteri divinatori concessi loro dalla Divinità.
Vivevano in grotte oscure o in prossimità di fonti sacre e sul significato del loro nome, c’è la stessa oscurità e lo stesso alone di mistero che circondava la loro figura.
“Vergine Oscura”, secondo alcuni, il significato del termine Sibilla, proprio perché vivevano in luoghi oscuri e misteriosi; inaccessibili. E proprio per questo, e per i loro infallibili responsi, le Sibille erano assai temute e rispettate.
La Sibilla era “posseduta” da potere divino che acquisiva attraverso il respiro di vapori che uscivano da fenditure del terreno nei pressi della grotta in cui viveva (l’Antro della Sibilla) e con libagioni di acqua di Fonte Sacra.
Masticava foglie di lauro, pianta sacra al dio Apollo, atto con cui suggellava la sua unione con la Divinità.
Come ogni altra Sacerdotessa, la Sibilla era la “sposa” del Dio, ma non si trattava di amplesso fisico: la Sibilla, infatti, conservava intatta la sua verginità, poiché “l’amore” di Apollo nei suoi confronti era solamente un “soffio” trasfuso in lei, conservandola nello stato di verginità.
(il concetto di Vergine-feconda ha sempre affascinato l’uomo)
La Sibilla cumana, però, conobbe un ben altro destino: beffardo e crudele.
La leggenda narra che una di queste Sibille giunse a Cuma, in Campania, nei pressi dei Campi Flegrei, dalla città greca di Eritre. Il suo nome era Deifobe.
Era così bella, che Apollo se ne innamorò follemente e le promise, in cambio di sesso, che avrebbe esaudito ogni suo desiderio.
La Sibilla si chinò a raccogliere un pugno di terra e chiese ad Apollo di concederle di vivere tanti anni quanti erano i granelli di terra raccolti.
Apollo acconsentì, ma la ragazza gli si rifiutò.
La vendetta di Apollo fu terribile: le concesse di vivere, ma le negò la giovinezza: settecento anni.
Con il passar degli anni, Deifobe divenne sempre vecchia e più piccola; quanto una cicala.
A chi le chiedeva quale fosse il suo desiderio, rispondeva con voce triste e sconsolata:
“La morte!”
Apollo, infine le concesse di morire.
Morale?… Forse che una vecchiaia troppo lunga è anche troppo triste!
I Libri Sibillini

Una leggenda racconta che Apollo, il bellissimo Dio del Sole, innamorato di Deifobe, la bella Sibilla da cui era stato respinto, ciò nonostante, le concesse di vivere molto più a lungo del previsto, a patto che lasciasse la Grecia e si stabilisse a Cuma, in zona partenopea.
Qui, un giorno, la Sibilla apparve a Tarquinio il Superbo, ultimo Re di Roma (vedere articolo: “Lo stupro che causò la fine della Monarchia nell’Antica Roma) e gli offrì i suoi nove Libri Sibillini in cui erano riportati oracoli e profezie.
Il Sovrano reputò eccessivo il prezzo richiesto e la Sibilla, allora, ne distrusse tre.
Re Tarquinio, ritenne ancora più alto il prezzo richiesto per quei soli sei Libri e a quel punto, la Sibilla ne distrusse altri tre.
Solo di fronte a tanta determinazione, il Re di Roma si decise ad acquistarli, proprio mentre la Sibilla faceva l’atto di distruggere gli ulteriori tre rimasti.
Il prezzo, però, rimase quello relativo a tutti e nove.
Tarquinio il Superbo ordinò di custodire i tre Testi Sibillini nel Tempio di Giove, a Roma.
Purtroppo, nell’ 83 a.C., essi andarono distrutti in uno dei tanti frequenti incendi che affliggevano la città.
Le Amazzoni

. Le Amazzoni erano donne guerriere, figlie di Ares (Marte) e Armonia, una delle Naiadi.
All’inizio vissero lungo il fiume Tanai, conosciuto anche con il nome Amazzonia, dal nome di Tanai, figlio dell’amazzone Lisippa, una delle matriarche.
Costei era talmente smaniosa di battaglie e combattimenti, da disprezzare l’istituto del matrimonio al punto da suscitare in Afrodite (Venere) il desiderio di punirla. La punizione che la Dea dell’Amore scelse per lei, in verità, fu assai severa e particolare: indusse il figlio Tanai ad innamorarsi della madre, ma il ragazzo, per non cedere ad un passionale atto di incesto, preferì gettarsi in un fiume ed annegare.
L’ombra del ragazzo, però, seguiva ovunque la madre e per liberarsene, Lisippa decise di spostarsi con tutta la sua gente lungo le rive del Mar Nero, fino a raggiungere la pianura del fiume Termadonte, in Cappadocia.
Qui si stabilì e, secondo l’usanza matriarcale, divise la sua gente in tre tribù, ognuna delle quali fondò una città; Smirne era una di queste.
Le Amazzoni erano abilissime nel cavalcare e nel tiro con l’arco; secondo la leggenda, per meglio maneggiare l’arco e il piccolo scudo a forma di mezzaluna, arrivavano perfino a sacrificare il seno destro (da cui il nome amazzone: priva di un seno)
Vivevano da sole e senza il maschio e per perpetrare la stirpe, cercavano brevi contatti con i maschi delle tribù vicine. I figli maschi che nascevano da quei rapporti sessuali erano rimandati alle tribù; le femmine, invece, venivano allevate secondo rigida educazione guerresca.
Parche nel mangiare, queste donne davvero uniche, indossavano tuniche di pelli di animali feroci trattenute in vita da cinture, sempre in pelli, dalla particolare e complicata fattura.
Fiere e coraggiose, esperte nell’arte della guerra, vincerle in battaglia non era impresa facile. Ci riuscirono solo eroi come Eracle, che ne sposò la regina Ippolita e come Teseo che si portò come preda di guerra la regina Antiope… ma delle loro storie parleremo in seguito.
All’inizio vissero lungo il fiume Tanai, conosciuto anche con il nome Amazzonia, dal nome di Tanai, figlio dell’amazzone Lisippa, una delle matriarche.
Costei era talmente smaniosa di battaglie e combattimenti, da disprezzare l’istituto del matrimonio al punto da suscitare in Afrodite (Venere) il desiderio di punirla. La punizione che la Dea dell’Amore scelse per lei, in verità, fu assai severa e particolare: indusse il figlio Tanai ad innamorarsi della madre, ma il ragazzo, per non cedere ad un passionale atto di incesto, preferì gettarsi in un fiume ed annegare.
L’ombra del ragazzo, però, seguiva ovunque la madre e per liberarsene, Lisippa decise di spostarsi con tutta la sua gente lungo le rive del Mar Nero, fino a raggiungere la pianura del fiume Termadonte, in Cappadocia.
Qui si stabilì e, secondo l’usanza matriarcale, divise la sua gente in tre tribù, ognuna delle quali fondò una città; Smirne era una di queste.
Le Amazzoni erano abilissime nel cavalcare e nel tiro con l’arco; secondo la leggenda, per meglio maneggiare l’arco e il piccolo scudo a forma di mezzaluna, arrivavano perfino a sacrificare il seno destro (da cui il nome amazzone: priva di un seno)
Vivevano da sole e senza il maschio e per perpetrare la stirpe, cercavano brevi contatti con i maschi delle tribù vicine. I figli maschi che nascevano da quei rapporti sessuali erano rimandati alle tribù; le femmine, invece, venivano allevate secondo rigida educazione guerresca.
Parche nel mangiare, queste donne davvero uniche, indossavano tuniche di pelli di animali feroci trattenute in vita da cinture, sempre in pelli, dalla particolare e complicata fattura.
Fiere e coraggiose, esperte nell’arte della guerra, vincerle in battaglia non era impresa facile. Ci riuscirono solo eroi come Eracle, che ne sposò la regina Ippolita e come Teseo che si portò come preda di guerra la regina Antiope… ma delle loro storie parleremo in seguito.
La leggenda di Valleda - Sacerdotessa druida

Leggenda o realtà, si dice che le Druidesse, sacerdotesse celtiche, godessero dello stesso potere e prestigio dei Druidi, i sacerdoti.
In più, quelle donne praticavano anche l’arte della Divinazione ed avevano profonda conoscenza di erbe magiche e medicamentose.
Vivevano da sole in luoghi impervi e boscosi e si concedevano ad un uomo una sola volta nell’anno ed a volte restavano vergine per tutta la vita.
Era il caso di Velleda.
Nella cultura celtica la donna godeva di grande considerazione da parte dei propri uomini e di ammirazione da parte dei nemici.
Strabone e Tacito ci dicono, infatti, che esse seguissero in battaglia i loro uomini, li incitassero al combattimento, ne curassero le ferite.
Miti e leggende nacquero, dunque, intorno ad alcune di queste figure.
Velleda, della tribù dei Bructeri, fu la più famosa e celebrata. Profetessa di fama indiscussa, fu venerata dalla sua gente come una Dea e Tacito la citò più volte nelle sue “Storie”.
Viveva in un’alta torre, inaccessibile a tutti, se non ad un parente prossimo che le presentava le richieste di responsi da parte della gente, come fosse una vera Dea.
La sua fama crebbe a dismisura soprattutto quando, nel 68 a.C. predisse la sconfitta delle Legioni Romane e la vittoria delle tribù dei Germani.
Civile, capo dei Germani, per onorarla le inviò, assieme ad altri numerosi doni, la persona del Legato romano Munio Luperco.
Più volte, sempre secondo Tacito, Velleda fu chiamata perfino come testimone e garante delle alleanze delle tribù contro il comune nemico: Roma.
Tale era la sua influenza.
Purtroppo tutto è provvisorio a questo mondo. Allora come oggi.
Le sorti del conflitto mutarono. Le Legioni romane, con il nuovo Legato, Ceriale, passarono al contrattacco. Ceriale devastò il territorio con implacabile ferocia e le varie tribù alleate di Civile si trovarono a pensare, come ci dice Tacito, in questi termini:
“…potendo scegliersi i padroni, è più onorevole sopportare i principi romani che le femmine germaniche…” con chiaro riferimento alla profetessa dei Bructeri.
Il Legato di Roma da parte sua non mancò (con rispettose e velate minacce) di ammonire Velleda e la sua famiglia a desistere dall’istigare le tribù contro Roma.
Il destino della druidessa si concluse proprio a Roma, dove fu condotta prigioniera
Maggiori informazioni http://storia-e-mito.webnode.it/products/la-leggenda-di-valleda-sacerdotessa-druida/
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In più, quelle donne praticavano anche l’arte della Divinazione ed avevano profonda conoscenza di erbe magiche e medicamentose.
Vivevano da sole in luoghi impervi e boscosi e si concedevano ad un uomo una sola volta nell’anno ed a volte restavano vergine per tutta la vita.
Era il caso di Velleda.
Nella cultura celtica la donna godeva di grande considerazione da parte dei propri uomini e di ammirazione da parte dei nemici.
Strabone e Tacito ci dicono, infatti, che esse seguissero in battaglia i loro uomini, li incitassero al combattimento, ne curassero le ferite.
Miti e leggende nacquero, dunque, intorno ad alcune di queste figure.
Velleda, della tribù dei Bructeri, fu la più famosa e celebrata. Profetessa di fama indiscussa, fu venerata dalla sua gente come una Dea e Tacito la citò più volte nelle sue “Storie”.
Viveva in un’alta torre, inaccessibile a tutti, se non ad un parente prossimo che le presentava le richieste di responsi da parte della gente, come fosse una vera Dea.
La sua fama crebbe a dismisura soprattutto quando, nel 68 a.C. predisse la sconfitta delle Legioni Romane e la vittoria delle tribù dei Germani.
Civile, capo dei Germani, per onorarla le inviò, assieme ad altri numerosi doni, la persona del Legato romano Munio Luperco.
Più volte, sempre secondo Tacito, Velleda fu chiamata perfino come testimone e garante delle alleanze delle tribù contro il comune nemico: Roma.
Tale era la sua influenza.
Purtroppo tutto è provvisorio a questo mondo. Allora come oggi.
Le sorti del conflitto mutarono. Le Legioni romane, con il nuovo Legato, Ceriale, passarono al contrattacco. Ceriale devastò il territorio con implacabile ferocia e le varie tribù alleate di Civile si trovarono a pensare, come ci dice Tacito, in questi termini:
“…potendo scegliersi i padroni, è più onorevole sopportare i principi romani che le femmine germaniche…” con chiaro riferimento alla profetessa dei Bructeri.
Il Legato di Roma da parte sua non mancò (con rispettose e velate minacce) di ammonire Velleda e la sua famiglia a desistere dall’istigare le tribù contro Roma.
Il destino della druidessa si concluse proprio a Roma, dove fu condotta prigioniera
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L'Angelo della Morte

Una antica leggenda narra di una terribile pestilenza mandata da Dio sulla Terra. Ne rimasero vittime anche nove dei dieci figli di una vedova.
Disperata, la donna invocò Dio affinché le risparmiasse almeno l'ultimo figlio.
Mosso a pietà, Dio le disse che aveva un solo modo per salvare suo figlio e cioé abbigliandolo con una veste ricamata con una Croce e dei fiori, in modo che l'Angelo della Morte non potesse riconoscerlo e risparmiarlo. Ad una condizione, però, che non rivelasse ad altri questo espediente.
La donna fece quanto detto e salvò se stessa e suo figlio, però era rattristata dal gran numero di persone morte e pensò di fare qualcosa.
Cominciò a decorare uova, che chiamò Pysanky, con croci e fiori e prese a regalarle a parenti ed amici dicendo di mangiarle.
Le uova così decorate, però, erano talmente belle, che nessuno volle mangiarne e preferirono metterle in bella mostra nel posto più importante della casa.
Fu così che l'Angelo della Morte si lasciò confondere e finì per risparmiare la gente.
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Le Valchirie

Valchiria! E’ un nome che evoca oggi, soprattutto nell’immaginario maschile, la figura di un’avvenente ragazza di origine nordica.
Le Valchirie appartengono proprio alle leggende ed alla mitologia nordica; della Scandinavia, per la precisione.
Erano davvero bellissime: corpo statuario e lunghissimi capelli biondi. Bellissime, vergini e guerriere.
Le Valchirie erano inviate da Odino, Re degli Dei, nei luoghi dove infuriava la battaglia ad accendere i combattimenti ed a scegliere i guerrieri destinati ad una morte gloriosa: gli Einherii.
Dai cambi di battaglia, le Vergini-guerriere, dalle corazze di cuoio e gli elmi piumati, guidavano gli spiriti dei valorosi caduti in battaglia fino al Walhalla, la dimora di Odino, in Asgard.
Il termine Walkyrie trae la sua origine da wal, che significa battaglia e da kryan, che vuol dire scegliere.
Terminata la battaglia, le Valchirie guidavano gli spiriti dei valorosi guerrieri attraverso la Selva-d’Oro di Glasor e li conducevano fino al cospetto di Odino, nel Walhalla.
Qui, per fortificarsi e rendersi invincibili, i Guerrieri si cibavano del verro Sadhrimmnir (maschio di maiale dalle carni illimitate) e si dissetavano con idromele della capra Heidrun.
Ogni giorno, sotto la guida delle Valchirie, i Guerrieri si esercitavano in diversi tornei per essere pronti alla grande battaglia finale, dura e senza quartiere, che dovevano affrontare quando sarebbe giunta la fine del mondo.
Lo stesso Odino partecipava a quelle tenzoni in sella al suo cavallo, Sleipnir e con la sua grande lancia Gungnir.
Di numero non ben definito, i nomi di queste Vergini-guerriere erano di carattere assolutamente guerresco:Gun, Hild,Hrend,…
Più noto, certamente, il nome di Brunilde, ma solo perché nato dal genio di R. Wagner che per la sua splendida opera “Le Valchirie” compose musica e libretto, ispirandosi alla mitologia del popolo dei Nibelunghi.
Le Valchirie appartengono proprio alle leggende ed alla mitologia nordica; della Scandinavia, per la precisione.
Erano davvero bellissime: corpo statuario e lunghissimi capelli biondi. Bellissime, vergini e guerriere.
Le Valchirie erano inviate da Odino, Re degli Dei, nei luoghi dove infuriava la battaglia ad accendere i combattimenti ed a scegliere i guerrieri destinati ad una morte gloriosa: gli Einherii.
Dai cambi di battaglia, le Vergini-guerriere, dalle corazze di cuoio e gli elmi piumati, guidavano gli spiriti dei valorosi caduti in battaglia fino al Walhalla, la dimora di Odino, in Asgard.
Il termine Walkyrie trae la sua origine da wal, che significa battaglia e da kryan, che vuol dire scegliere.
Terminata la battaglia, le Valchirie guidavano gli spiriti dei valorosi guerrieri attraverso la Selva-d’Oro di Glasor e li conducevano fino al cospetto di Odino, nel Walhalla.
Qui, per fortificarsi e rendersi invincibili, i Guerrieri si cibavano del verro Sadhrimmnir (maschio di maiale dalle carni illimitate) e si dissetavano con idromele della capra Heidrun.
Ogni giorno, sotto la guida delle Valchirie, i Guerrieri si esercitavano in diversi tornei per essere pronti alla grande battaglia finale, dura e senza quartiere, che dovevano affrontare quando sarebbe giunta la fine del mondo.
Lo stesso Odino partecipava a quelle tenzoni in sella al suo cavallo, Sleipnir e con la sua grande lancia Gungnir.
Di numero non ben definito, i nomi di queste Vergini-guerriere erano di carattere assolutamente guerresco:Gun, Hild,Hrend,…
Più noto, certamente, il nome di Brunilde, ma solo perché nato dal genio di R. Wagner che per la sua splendida opera “Le Valchirie” compose musica e libretto, ispirandosi alla mitologia del popolo dei Nibelunghi.
La leggenda di Brunilde e Sigfrido

La leggenda di Brunilde e Sigfrido Brunilde era una delle più belle Valchirie, vergini-guerriere inviate, secondo la mitologia nordica, sui campi di battaglia a scegliere i combattenti destinati a morte gloriosa.
Era, però, anche la più testarda ed orgogliosa e con attitudine alla disobbedienza.
Proprio a causa di quel suo carattere, per punizione Odino, Re degli Dei, la relegò sulla cima di un monte circondato di fiamme.
A salvarla arrivò l’eroe di stirpe divina, Sigfrido.
Tra i due scoppiò l’amore. Reciproco e totale che, come spesso succede, attirò sui due innamorati, invidie e gelosie.
Il cattivo di turno era il mago Hayen, vero genio del male, segretamente e follemente innamorato della bella Valchiria.
Egli riuscì con un incantesimo a dividere i due amanti.
Con un filtro magico, fatto bere con l’inganno a Sigfrido, ospite del Re dei Burgundi, fece accendere d’amore e di passione il cuore dell’eroe per la bella Crimilde, figlia del Re.
Sotto l’effetto dell’incantesimo, l’eroe abbandonò Brunilde e sposò Crimilde.
E non si accontentò di questo. Brigò e ci riuscì, a far sposare Brunilde con Gunther, fratello di Crimilde
Umiliata e offesa, la bella Valchiria finse di accondiscendere alle richieste dell’ ex-innamorato: sposò Gunther, ma dentro di sé covò una terribile vendetta: rivelò al perfido Heyen il punto vulnerabile dell’eroe.
Sigfrido, infatti, in una delle tante sue imprese, aveva affrontato ed ucciso il drago Fafnir e si era bagnato nel suo sangue, rendendosi invulnerabile. Ad eccezione della spalla sinistra, su cui si era depositata una foglia.
Proprio in quel punto della spalla fu scagliata la freccia che lo uccise.
Quando apprese dell’inganno del filtro, Brunilde, non reggendo al dolore e al rimorso, si lanciò con il cavallo sulla pira che Crimilde aveva fatto innalzare per adagiare il cadavere dell’eroe, e vi trovò la morte.
Le fiamme si alzarono e raggiunsero il Walhalla, la residenza degli Dei, Odino l’accolse a braccia aperte e dove gli spiriti dei due amanti vissero uniti e per sempre.
Era, però, anche la più testarda ed orgogliosa e con attitudine alla disobbedienza.
Proprio a causa di quel suo carattere, per punizione Odino, Re degli Dei, la relegò sulla cima di un monte circondato di fiamme.
A salvarla arrivò l’eroe di stirpe divina, Sigfrido.
Tra i due scoppiò l’amore. Reciproco e totale che, come spesso succede, attirò sui due innamorati, invidie e gelosie.
Il cattivo di turno era il mago Hayen, vero genio del male, segretamente e follemente innamorato della bella Valchiria.
Egli riuscì con un incantesimo a dividere i due amanti.
Con un filtro magico, fatto bere con l’inganno a Sigfrido, ospite del Re dei Burgundi, fece accendere d’amore e di passione il cuore dell’eroe per la bella Crimilde, figlia del Re.
Sotto l’effetto dell’incantesimo, l’eroe abbandonò Brunilde e sposò Crimilde.
E non si accontentò di questo. Brigò e ci riuscì, a far sposare Brunilde con Gunther, fratello di Crimilde
Umiliata e offesa, la bella Valchiria finse di accondiscendere alle richieste dell’ ex-innamorato: sposò Gunther, ma dentro di sé covò una terribile vendetta: rivelò al perfido Heyen il punto vulnerabile dell’eroe.
Sigfrido, infatti, in una delle tante sue imprese, aveva affrontato ed ucciso il drago Fafnir e si era bagnato nel suo sangue, rendendosi invulnerabile. Ad eccezione della spalla sinistra, su cui si era depositata una foglia.
Proprio in quel punto della spalla fu scagliata la freccia che lo uccise.
Quando apprese dell’inganno del filtro, Brunilde, non reggendo al dolore e al rimorso, si lanciò con il cavallo sulla pira che Crimilde aveva fatto innalzare per adagiare il cadavere dell’eroe, e vi trovò la morte.
Le fiamme si alzarono e raggiunsero il Walhalla, la residenza degli Dei, Odino l’accolse a braccia aperte e dove gli spiriti dei due amanti vissero uniti e per sempre.
La leggenda di Crimilde e Sigfrido

Questa storia fa parte della mitologia nordica del popolo dei Nibelunghi. Inizia quando l’eroe Sigfrido giunge alla corte del Re dei Burgundi.
Sigfrido è un grande eroe, che ha compiuto grandi imprese: ha combattuto, vinto e ucciso il drago… nel cui sangue si è bagnato rendendosi invulnerabile, salvo una spalla su cui si era posata una foglia.
Ha conquistato la Spada Magica, la cui lama uccide al solo tocco ed ha ricevuto in dono da una maga un anello che moltiplica le forze.
Riesce anche a salvare la Valchiria Brunilde, vergine-Guerriera inviata da Odino, Padre degli Dei, a scegliere eroici guerrieri morenti da condurre nel Walhalla, dimora degli Dei.
Brunilde e Sigfrido finiscono per innamorarsi, ma il cattivo mago Hagen, con una pozione magica, fa infiammare il cuore dell’eroe per Crimilde, sorella di Gunther, re dei Burgundi, a cui Sgfrido consegna la bella Brunilde.
Furente, ma sempre innamorato del suo eroe, Brunilde è rosa dalla gelosia: Sigfrido e Crimilde sono molto felici e lei per vendicarsi del tradimento di Sigfrido, rivela ai suoi nemici il solo punto vulnerabile del suo corpo.
Responsabili della morte di Sigfrido, con una freccia scagliata in quel solo punto vulnerabile, sono il mago Hagen e lo stesso re Gunther, i quali vogliono impadronirsi del tesoro che l’eroe aveva sottratto al drago.
Brunilde, apprendendo del filtro magico, rosa dal rimorso, si getta sulla pira su cui Crimilde aveva fatto adagiare il cadavere dell’eroe.
La vendetta di Crimilde, invece, fu tremenda e seguiva un ben preciso disegno.
Si concesse come moglie ad Attila, Re degli Unni e si fece giurare che l’avrebbe assistita nella vendetta contro la propria famiglia.
La nuova Regina degli Unni invitò a corte il fratello Gunther con il suo seguito di nobili e cavalieri e il mago Hugen. Offrì loro un sontuoso banchetto, chiedendo, però, di lasciare le armi fuori del grande salone.
Crimilde chiese ai fratelli di consegnarle il mago Hagen, ma costoro si rifiutarono, poiché il mago era il solo a conoscere il posto, nel Reno, in cui Sigfrido aveva sepolto il suo tesoro.
Per ottenere quel tesoro, fa sapere il mago, nessuno del popolo dei Burgundi dovrà essere ancora in vita.
Crimilde non ebbe esitazioni e chiese da Attila, che non aspettava altro, lo sterminio della sua gente e dell’odiato mago Hagen, che si consumò durante quel banchetto fatale.
Sigfrido è un grande eroe, che ha compiuto grandi imprese: ha combattuto, vinto e ucciso il drago… nel cui sangue si è bagnato rendendosi invulnerabile, salvo una spalla su cui si era posata una foglia.
Ha conquistato la Spada Magica, la cui lama uccide al solo tocco ed ha ricevuto in dono da una maga un anello che moltiplica le forze.
Riesce anche a salvare la Valchiria Brunilde, vergine-Guerriera inviata da Odino, Padre degli Dei, a scegliere eroici guerrieri morenti da condurre nel Walhalla, dimora degli Dei.
Brunilde e Sigfrido finiscono per innamorarsi, ma il cattivo mago Hagen, con una pozione magica, fa infiammare il cuore dell’eroe per Crimilde, sorella di Gunther, re dei Burgundi, a cui Sgfrido consegna la bella Brunilde.
Furente, ma sempre innamorato del suo eroe, Brunilde è rosa dalla gelosia: Sigfrido e Crimilde sono molto felici e lei per vendicarsi del tradimento di Sigfrido, rivela ai suoi nemici il solo punto vulnerabile del suo corpo.
Responsabili della morte di Sigfrido, con una freccia scagliata in quel solo punto vulnerabile, sono il mago Hagen e lo stesso re Gunther, i quali vogliono impadronirsi del tesoro che l’eroe aveva sottratto al drago.
Brunilde, apprendendo del filtro magico, rosa dal rimorso, si getta sulla pira su cui Crimilde aveva fatto adagiare il cadavere dell’eroe.
La vendetta di Crimilde, invece, fu tremenda e seguiva un ben preciso disegno.
Si concesse come moglie ad Attila, Re degli Unni e si fece giurare che l’avrebbe assistita nella vendetta contro la propria famiglia.
La nuova Regina degli Unni invitò a corte il fratello Gunther con il suo seguito di nobili e cavalieri e il mago Hugen. Offrì loro un sontuoso banchetto, chiedendo, però, di lasciare le armi fuori del grande salone.
Crimilde chiese ai fratelli di consegnarle il mago Hagen, ma costoro si rifiutarono, poiché il mago era il solo a conoscere il posto, nel Reno, in cui Sigfrido aveva sepolto il suo tesoro.
Per ottenere quel tesoro, fa sapere il mago, nessuno del popolo dei Burgundi dovrà essere ancora in vita.
Crimilde non ebbe esitazioni e chiese da Attila, che non aspettava altro, lo sterminio della sua gente e dell’odiato mago Hagen, che si consumò durante quel banchetto fatale.
La leggenda di Sgfrido e del tesoro dei Nibelunghi

E' l'eroe per eccellenza della mitologia germanica.
Allevato da Ragin, il fabbro, Sigfrido crebbe forte, coraggioso e di bellissimo aspetto. Ancora giovanissimo, il suo maestro lo spinse verso la sua prima impresa: la conquista del tesoro dei Nibelunghi, il mitico popolo dei Nani. di cui faceva parte lo stesso Ragin.
Questo tesoro era appartenuto a Hreidhmar, il padre di Ragin che Fafner, l'altro figlio, aveva ucciso per impadronirsene e dividerlo con il fratello.
Al momento della spartizione, però, Fafner si rifiutò di consegnare al fratello la sua parte, nascose il tesoro e in sembianze di un drago si pose di guardia.
Armato di una magica spada forgiata da Ragin, il suo maestro, Sigfrido affrontò il drago e lo uccise, poi si bagnò nel suo sangue per diventare invulnerabile.
Una foglia, però, si pose sulla sua spalla sinistra, che divenne il punto vulnerabile di tutto il corpo.
Compiuta l'impresa, l'eroe nascose il tesoro in un posto sicuro lungo il corso del Reno, poi si pose in cammino per affrontare un'altra impresa.
Da un falco, l'eroe conosceva il linguaggio degli uccelli, apprese che Brunilde, una delle più belle Valchirie, era stata relegata da Odino, Re degli Dei, sulla vetta di un monte circondato di fiamme.
Sigfrido riuscì a liberarla e si innamorò perdutamente di lei; anche Brunilde era profondamente innamorata del bellissimo eroe e i due decisero di sposarsi.
Per la bella Valchiria, però, ardeva d'amore anche Gunther, Re dei Burgundi, un popolo guerriero di stirpe Vichinga, il quale invitò l'eroe a corte per una partita di caccia.
Gunther, però, mirava anche ad impadronirsi del tesoro nascosto e chiese al mago Hagen
di aiutarlo nell'impresa.
Il mago preparò un filtro magico che fece accendere d'amore il cuore di Sigfrido per la bella Crimildde, sorella di Gunther.
Sigfrido abbandonò Brunilde che convinse a sposare Gunther, poi convolò a nozze con Crimilde.
La bella Valchiria, però, umiliata e tradita, mise ben presto in atto la sua vendetta: rivelò al mago Hagen il punto vulnerabile dell'eroe e questi durante una partita di caccia lo colpì a morte mentre stava dissetandosi ad una fonte.
Venuta a conoscenza della verità, Brunilde, sopraffatta dal dolore e dal rimorso, si gettò sulla pira che Crimilde aveva fatto preparare per Sigfrido.
Spietata, invece, fu la vendetta di Crimilde nei confronti degli assassini dell'amatissimo marito.
Diventata la sposa di Attila, re degli Unni, Crimilde invitò ad un banchetto suo fratello e il suo seguito e anche il mago Hagen poi chiese ad Attila, il quale non aspettava altro, di farne strage.
La storia di Eco e Narciso

ECO e NARCISO
Eco era una graziosissima Ninfa dei Monti con la tendenza ad impicciarsi sempre dei fatti degli altri.
Ad esempio, distraeva Giunone con bellissime favole, (alla piccola Ninfa piaceva molto parlare…) per permettere a Giove di intrattenersi con altre donne.
Quando Giunone scoprì il giochetto, la punì in modo davvero insolito e particolare: non avrebbe mai più parlato per prima, ma solo ripetuto scioccamente quello che dicevano gli altri… e solo le ultime parole.
Un giorno mentre se ne andava vagabondando per i boschi
Eco si imbatté in un giovane di straordinaria bellezza e fu subito un colpo di fulmine.
Ignorando che quel bellissimo giovane era addirittura Narciso, figlio del fiume Cefiso, innamorato di nessun’altra creatura che di se stesso, la bella Ninfa cominciò a seguirlo, guardandolo di nascosto estasiata e scivolando leggera tra siepi ed arbusti.
Sempre di nascosto, la piccola Ninfa si lasciò condurre fino ad una sorgente dove Narciso si fermò per dissetarsi.
Prima ancora che potesse chinarsi sulle acque della fonte, il bellissimo giovane sentì un fruscio alle spalle.
“Chi è là!” chiese.
“…là!” rispose Eco
“Esci fuori e fatti vedere, chiunque tu sia!”
“… tu sia!” fece ancora la voce della piccola ninfa.
“Chi sei? Dico a Te!”
“… a te!” ancora Eco.
Non vedendo nessuno, il ragazzo si chinò sulla fonte e tese le mani per prendere acqua e quale non fu la sua sorpresa: riflesso sulla superficie dell’acqua c’era un volto dalla bellezza così unica e rara che egli si sentì stringere il cuore dall’emozione.
“Chi sei? – domandò e non ricevendo risposta, continuò – La creatura degna dell’amore di Narciso… ecco, chi sei tu.”
Fino a quel momento, infatti, Narciso aveva rifiutato ogni offerta d’amore, reputandole indegne di lui.
“… sei tu!” lo raggiunse alle spalle la voce della piccola Ninfa che aveva trovato il coraggio di lasciare il nascondiglio, avvicinarsi e tendergli le braccia.
“Vai via da me, piccola, sciocca Ninfa. – la respinse il bel Narciso, infiammato d’amore per quel volto riflesso nell’acqua – Nessuno, all’infuori di lui è degno dell’amore del bel Narciso.”
“… bel Narciso.” sussurrò la povera ninfa allontanandosi tra la vegetazione, mentre Narciso tornava alla fonte ed al volto riflesso nella superficie dell’acqua.
“Chi sei?” chiamò ancora, ignorando di parlare all’immagine di se stesso.
“Ahimè!… Ahimè!” cominciò a genere, poiché quello non rispondeva e restava immobile se non per ripetere i suoi gesti.
“…Ahimè!” rispondeva l’eco sempre più lontana.
Continuò così, fino a quando il bellissimo giovane non cadde riverso tra fiori di lillà.
Gli Dei, impietositi, lo trasformarono nel fiore che porta il suo nome.
Eco era una graziosissima Ninfa dei Monti con la tendenza ad impicciarsi sempre dei fatti degli altri.
Ad esempio, distraeva Giunone con bellissime favole, (alla piccola Ninfa piaceva molto parlare…) per permettere a Giove di intrattenersi con altre donne.
Quando Giunone scoprì il giochetto, la punì in modo davvero insolito e particolare: non avrebbe mai più parlato per prima, ma solo ripetuto scioccamente quello che dicevano gli altri… e solo le ultime parole.
Un giorno mentre se ne andava vagabondando per i boschi
Eco si imbatté in un giovane di straordinaria bellezza e fu subito un colpo di fulmine.
Ignorando che quel bellissimo giovane era addirittura Narciso, figlio del fiume Cefiso, innamorato di nessun’altra creatura che di se stesso, la bella Ninfa cominciò a seguirlo, guardandolo di nascosto estasiata e scivolando leggera tra siepi ed arbusti.
Sempre di nascosto, la piccola Ninfa si lasciò condurre fino ad una sorgente dove Narciso si fermò per dissetarsi.
Prima ancora che potesse chinarsi sulle acque della fonte, il bellissimo giovane sentì un fruscio alle spalle.
“Chi è là!” chiese.
“…là!” rispose Eco
“Esci fuori e fatti vedere, chiunque tu sia!”
“… tu sia!” fece ancora la voce della piccola ninfa.
“Chi sei? Dico a Te!”
“… a te!” ancora Eco.
Non vedendo nessuno, il ragazzo si chinò sulla fonte e tese le mani per prendere acqua e quale non fu la sua sorpresa: riflesso sulla superficie dell’acqua c’era un volto dalla bellezza così unica e rara che egli si sentì stringere il cuore dall’emozione.
“Chi sei? – domandò e non ricevendo risposta, continuò – La creatura degna dell’amore di Narciso… ecco, chi sei tu.”
Fino a quel momento, infatti, Narciso aveva rifiutato ogni offerta d’amore, reputandole indegne di lui.
“… sei tu!” lo raggiunse alle spalle la voce della piccola Ninfa che aveva trovato il coraggio di lasciare il nascondiglio, avvicinarsi e tendergli le braccia.
“Vai via da me, piccola, sciocca Ninfa. – la respinse il bel Narciso, infiammato d’amore per quel volto riflesso nell’acqua – Nessuno, all’infuori di lui è degno dell’amore del bel Narciso.”
“… bel Narciso.” sussurrò la povera ninfa allontanandosi tra la vegetazione, mentre Narciso tornava alla fonte ed al volto riflesso nella superficie dell’acqua.
“Chi sei?” chiamò ancora, ignorando di parlare all’immagine di se stesso.
“Ahimè!… Ahimè!” cominciò a genere, poiché quello non rispondeva e restava immobile se non per ripetere i suoi gesti.
“…Ahimè!” rispondeva l’eco sempre più lontana.
Continuò così, fino a quando il bellissimo giovane non cadde riverso tra fiori di lillà.
Gli Dei, impietositi, lo trasformarono nel fiore che porta il suo nome.
La leggenda di Lorelai

Lorelai era una Ondina di fiume ma era un Genio tutt’altro che benevolo e gentile.
Viveva lungo gli argini del fiume Reno e il suo passatempo preferito era nuocere ai naviganti.
Con la sua voce incantevole li attirava verso uno scoglio su cui stava seduta con la sua cetra e li attirava verso il naufragio e la morte.
La sua bellezza era talmente sfolgorante ed ammaliante e la ua voce così suadente che erano in molti a cadere vittima del suo mortale incanto.
Accadde anche al giovane, sprovveduto figlio di un potente signore. Il ragazzo annegò e il padre, disperato e furioso, organizzò una spedizione punitiva con l’intenzione di mettere fine alla vita di quella creatura malefica.
Proprio quando l’Ondina stava per soccombere, ecco che, inviato dal Dio del Reno, un irruente cavallo di schiuma emerse dalle acque portandola in salvo.
Da quel giorno, però, la terribile Ondina non si fece più vedere.
Viveva lungo gli argini del fiume Reno e il suo passatempo preferito era nuocere ai naviganti.
Con la sua voce incantevole li attirava verso uno scoglio su cui stava seduta con la sua cetra e li attirava verso il naufragio e la morte.
La sua bellezza era talmente sfolgorante ed ammaliante e la ua voce così suadente che erano in molti a cadere vittima del suo mortale incanto.
Accadde anche al giovane, sprovveduto figlio di un potente signore. Il ragazzo annegò e il padre, disperato e furioso, organizzò una spedizione punitiva con l’intenzione di mettere fine alla vita di quella creatura malefica.
Proprio quando l’Ondina stava per soccombere, ecco che, inviato dal Dio del Reno, un irruente cavallo di schiuma emerse dalle acque portandola in salvo.
Da quel giorno, però, la terribile Ondina non si fece più vedere.
La leggenda di Kolga e Sir Lawrence

KOLGA E SIR LAWRENCE
Sir Lawrence era un nobile cavaliere che amava andarsene per boschi e campagne. Un giorno si avvicinò
all’argine di un fiume per abbeverare il suo cavallo.
Si chinò sull’argine, quando ecco emergere dalle acque una fanciulla di una bellezza ineguagliabile.
La mitica creatura levò verso di lui le mani raccolte a conchiglia e gli offrì dell’acqua da bere.
Sir Lawrence si dissetò con quell’acqua e da quel si innamorò profondamente della bellissima Kolga che, immersa nell’acqua era una sirena, ma fuori, si trasformava nella fanciulla più bella che egli avesse mai visto.
I due si giurarono eterno amore e fedeltà e si sposarono; per amore, La bellissima Kolga rinunciò all’immortalità.
“Finché avrò respiro.” giurò sir Lawrence il giorno in cui la sposò e condusse con sé al suo palazzo.
La loro vita scorreva felice, appagata e serena, allietata dalla nascita di un bimbo.
Ma fu proprio quel lieto evento all’origine della loro rottura. Kolga aveva acquistato un’anima, ma, perdendo l’immortalità, era diventata umana a tutti gli effetti.
Cominciò a invecchiare e la sua mitica bellezza, inevitabilmente, sfiorire.
Sir Lawrence pian piano perse interesse per lei, fino a giungere al tradimento.
Kolga non perdonò l’offesa e né l’umiliazione: aveva rinunciato all’immortalità, ma non ai suoi poteri.
“Ti amerò fino a che avrò respiro, mi hai detto. – gli gridò in faccia – Ebbene, vivrai fino a che avrai respiro!”
Sir Lawrence morì quella notte stessa, caduto in apnea nel sonno.
SIRENE e NINFE
I N D I C E
- LE SIRENE
- LE NINFE
- NINFE di TERRA
- NINFE d'ACQUa
- LE ONDINE
- MUSE ed ERINNI
- LE SIRENE
- LE NINFE
- NINFE di TERRA
- NINFE d'ACQUa
- LE ONDINE
- MUSE ed ERINNI
Le Sirene

Affatto benevoli e gentili erano queste favolose creature marine: infide ed adescatrici. La loro voce incantata stregava il povero navigante e lo conduceva a morte certa.
Proprio in quell’ora che, come disse il Sommo Poeta, al navigante “intenerisce il cor”, nel silenzio infinito di un mare sterminato si levava una voce. Era un canto dolce e malinconico, che attirava i marinai stanchi e con il cuore gonfio di nostalgia.
Era un canto dalla bellezza struggente. Un canto divino.
I marinai non riuscivano a resistere a tale irresistibile richiamo e puntavano la prua della nave nella direzione da cui proveniva tanto incanto e tale soave delizia per le orecchie e il cuore: quel canto aveva la voce della sposa lontana, del figlio e della madre lasciati nella patria terra.
Era un canto che inebriava e stordiva e conduceva dritto verso la morte, nelle braccia di splendide fanciulle la cui bellezza era quasi pari all’ingannevole splendore della loro voce.
Ma non erano fanciulle normali. Erano creature dalla forma bizzarra: metà uccello e metà bellissime fanciulle.
Stanno sedute sopra scogliere infiorate dai lussureggianti colori e i marinai, lasciati remi e timoni, stavano ad ascoltare quel canto.
Troppo storditi per accorgersi che quella scogliera fiorita non era di roccia, ma di ossa umane ed era troppo tardi per fuggire.
Erano le “Rocce dei Naufraghi”, che ogni navigante conosceva attraverso i racconti di altri naviganti ed in cui sperava di naufragare mai.
E quelle donne adescatrici, splendide ed orribili insieme, erano le Sirene e erano belle quanto crudeli.
Quale bizzarro scherzo della Natura le aveva rese così mostruosamente belle? Metà donne e metà uccello.
Erano le figlie del dio del fiume Achelao e della Musa Sterpe, abilissime nel suono e dalla voce dolce e struggente.
I loro nomi erano: Leucasia, Molpe, Imerope, Teles… Erano dodici. Dodici fanciulle piene di grazia e dolcezza, tanto che Demetra, la Dea della Terra, le volle come compagne di sua figlia Persefone.
Fu proprio questa la loro disgrazia.
Erano in compagnia di Persefone (Proserpina) quando Ade (Plutone) la rapì per condurla con sé negli Inferi.
Demetra si infuriò così tanto con loro per non aver impedito il rapimento, che le trasformò nei mostri in cui i naviganti ebbero, da allora, la disgrazia di imbattersi lungo le loro rotte.
Le più conosciute tra loro: Telsiope l’Incantatrice, Aglaope la Meravigliosa Voce, Pasinoe la Maliarda, Partenope la Vergine… (da cui prese il nome Napoli, la Citta Partenopea).
Umiliate e vergognose del proprio mostruoso aspetto, le Sirene si ritirarono su un’isola del Tirreno dove cominciarono ad attirare al naufragio i naviganti che avevano la sfortuna di passare da quelle parti.
L’episodio più famoso legato alle Sirene è senza dubbio quello con Ulisse che vuole ascoltare il loro canto ma non vuole farsi catturare.
Sappiamo tutti com’è andata.
E le Sirene? Che fine hanno fatto?
Sono immortali, ma di loro non si è più saputo nulla perché, vinte ed umiliate da Ulisse, sopravvissuto al loro canto, si sono buttate in mare scomparendo per sempre sotto la sua superficie.
Successivamente ebbero una parziale riabilitazione: assursero a simbolo della qualità ammaliatrice delle donne, ma senza più quell’alone di morte e crudeltà.
Localizzate nel Tirreno meridionale, ebbero un centro di culto piuttosto importante in uno splendido Tempio nella penisola di Sorrento.
Oggi, con la completa riabilitazione, Sirena è davvero sinonimo di bellezza e grazia femminile.
LE ONDINE

LE ONDINE
Favolose creature della letteratura nordica, le Ondine erano Geni femminili dalla natura benevola, fatta qualche eccezione.
Il loro elemento era l’acqua, per cui abitavano mari e fiumi.
Le Ondine marine, figlie di Ager, Re del Mare e di Ran, la bellissima sposa, avevano come compito guidare i naviganti, soccorrere i naufraghi e, se possibile, riportare alle madri i marinai annegati.
Erano nove e i loro nomi ricordano le saghe vichinghe e nibelunghe:
Himinglifa – Dufa – Hadoha –Hedring –Udir – Hronn –Bylzia – Bora – Kolga.
Quando non erano impegnate a proteggere o soccorrere naviganti, passavano il tempo giocando e nuotando con tritoni, delfini, cavallucci marini ed altre creature del mare. Oppure se ne stavano sugli scogli e promontori a suonare, danzare e cantare, poiché una delle loro qualità era il suono struggente della voce, capace di incantare ogni creatura.
Erano creature bellissime, ma dalla vita in su, poiché erano creature ibridi: metà donna e metà pesce.
Anche le Ondine di fiume lo erano.
Queste abitavano le insenature di fiume, scogli, grotte, argini informi e, come le compagne marine, accompagnavano i naviganti fluviali con i loro meravigliosi canti e come quelle, erano bellissime e piene di fascino.
Avevano lunghissimi capelli che coprivano spalle e seni, fluttuanti al vento e dai riflessi blu, che ornavano con fiori e minuscole conchiglie.
Erano immortali, ma non possedevano un’anima, per cui, in caso di mortalità, sarebbe stato loro precluso andare in Paradiso.
Però, avevano una possibilità per guadagnarsi l’Anima: far innamorare di sé un mortale e dargli un figlio.
Struggenti leggende sono nate intorno agli amori, spesso infelici e tragici, nati tra un’Ondina ed un mortale, nonostante che l’Ondina ne conoscesse l’epilogo in anticipo. Sì! Poiché queste mitiche creature possedevano anche il dono della preveggenza e potevano leggere il proprio futuro attraverso quello di chi stava loro accanto.
Favolose creature della letteratura nordica, le Ondine erano Geni femminili dalla natura benevola, fatta qualche eccezione.
Il loro elemento era l’acqua, per cui abitavano mari e fiumi.
Le Ondine marine, figlie di Ager, Re del Mare e di Ran, la bellissima sposa, avevano come compito guidare i naviganti, soccorrere i naufraghi e, se possibile, riportare alle madri i marinai annegati.
Erano nove e i loro nomi ricordano le saghe vichinghe e nibelunghe:
Himinglifa – Dufa – Hadoha –Hedring –Udir – Hronn –Bylzia – Bora – Kolga.
Quando non erano impegnate a proteggere o soccorrere naviganti, passavano il tempo giocando e nuotando con tritoni, delfini, cavallucci marini ed altre creature del mare. Oppure se ne stavano sugli scogli e promontori a suonare, danzare e cantare, poiché una delle loro qualità era il suono struggente della voce, capace di incantare ogni creatura.
Erano creature bellissime, ma dalla vita in su, poiché erano creature ibridi: metà donna e metà pesce.
Anche le Ondine di fiume lo erano.
Queste abitavano le insenature di fiume, scogli, grotte, argini informi e, come le compagne marine, accompagnavano i naviganti fluviali con i loro meravigliosi canti e come quelle, erano bellissime e piene di fascino.
Avevano lunghissimi capelli che coprivano spalle e seni, fluttuanti al vento e dai riflessi blu, che ornavano con fiori e minuscole conchiglie.
Erano immortali, ma non possedevano un’anima, per cui, in caso di mortalità, sarebbe stato loro precluso andare in Paradiso.
Però, avevano una possibilità per guadagnarsi l’Anima: far innamorare di sé un mortale e dargli un figlio.
Struggenti leggende sono nate intorno agli amori, spesso infelici e tragici, nati tra un’Ondina ed un mortale, nonostante che l’Ondina ne conoscesse l’epilogo in anticipo. Sì! Poiché queste mitiche creature possedevano anche il dono della preveggenza e potevano leggere il proprio futuro attraverso quello di chi stava loro accanto.
NINFE

LE NINFE
Nei tempi in cui si adoravano gli Spiriti, di cui si credeva fossero animati gli elementi della Natura, si divinizzò il fulmine che atterra, la fiamma che incenerisce, la nuvola che si scioglie in pioggia o grandine, il vento che scuote, la fiera che dilania.
Tutti terrificanti fenomeni che contribuirono alla costruzione delle fondamenta arcaiche della mitologia.
Più tardi l’uomo riuscì a non farsi più solamente atterrire dalla pericolosa potenza della Natura, ma si lasciò anche affascinare dalla bellezza del Creato, sempre pericolosa, ma anche grandiosa e ispiratrice.
La guardò con animo diverso: commozione, stupore, poesia… soprattutto poesia.
Furono i poeti a creare i Miti: quelle favole che cantavano la Natura, la sua bellezza, la sua pericolosità, la sua generosità, la sua violenza.
Lo fecero attraverso l’allegoria, l’enigma, la fantasia l’immaginazione.
Era nato il MITO, magica tela su cui scorrevano i ritmi della Vita: l’ineluttabilità del Fato, i paurosi Misteri della Natura, le inquietanti divinazioni delle Profetesse, i chiassosi riti delle Baccanti, le risate argentine delle Ninfe…
Dal greco nimpha, il termine letteralmente significa “fanciulla in età da marito”.
Personificazione delle forze della Natura, le Ninfe erano parte integrante di essa e, di conseguenza, avevano con la Natura un rapporto particolare: fiumi e laghi, mari e monti, prati e sorgenti, boschi e alberi… tutti avevano la propria Ninfa protettrice.
Erano fanciulle bellissime e dotate di straordinari poteri. Di animo gentile, erano sempre pronte a rendersi utili a Divinità e uomini.
Diana, Apollo, Dioniso e Soprattutto i Satiri, Geni della Natura, ricercavano continuamente la loro compagnia e i loro favori.
Talvolta le Ninfe si concedevano anche agli uomini, ma quei contatti finivano quasi sempre in drammi e tragedie, soprattutto se la Ninfa in questione era immortale.
Non tutte le Ninfe, infatti, al contrario degli Dei, erano immortali: le Ninfe dei Monti, quelle dei Boschi, ma soprattutto le Ninfe degli Alberi, erano mortali proprio come gli uomini, benché la loro vita fosse assai più lunga.
In onore di queste splendide creature gli Antichi praticarono culti risalenti addirittura in età arcaica; per propiziarsene i favori, innalzarono in loro onore Templi che chiamarono Ninfei, dove praticavano riti ed offrivano doni: latte, miele, frutta, vino e fiori.
Le Ninfe erano assai numerose, perché numerosi e sfaccettati erano gli elementi della Natura.
Le più conosciute di loro erano, forse, le Ninfe dell’Acqua: di Mare, di Fiume, di Lago, di Sorgente e perfino di Stagno.
Cantori e Poeti da sempre ci hanno fatto conoscere le mitiche Nereidi, le favolose Sirene, le splendide Oceanine e altre ancora.
Una prima classificazione la possiamo fare tra le Ninfe di Acqua e Ninfe di Terra
NINFE di Acqua salata (mari ed oceani)
- Oceanine
- Nereidi
NINFE di Acqua dolce
- Naiadi: ninfe di sorgenti
- Potameidi: ninfe di fiume
- Limniadi: ninfe di laghi
- Eleadi: ninfe di paludi
NINFE di Terra:
- Driade: ninfe dei boschi
- Amadriade: ninfe degli alberi
- Oreadi: ninfe dei monti
- Napee: ninfe delle valli
Nei tempi in cui si adoravano gli Spiriti, di cui si credeva fossero animati gli elementi della Natura, si divinizzò il fulmine che atterra, la fiamma che incenerisce, la nuvola che si scioglie in pioggia o grandine, il vento che scuote, la fiera che dilania.
Tutti terrificanti fenomeni che contribuirono alla costruzione delle fondamenta arcaiche della mitologia.
Più tardi l’uomo riuscì a non farsi più solamente atterrire dalla pericolosa potenza della Natura, ma si lasciò anche affascinare dalla bellezza del Creato, sempre pericolosa, ma anche grandiosa e ispiratrice.
La guardò con animo diverso: commozione, stupore, poesia… soprattutto poesia.
Furono i poeti a creare i Miti: quelle favole che cantavano la Natura, la sua bellezza, la sua pericolosità, la sua generosità, la sua violenza.
Lo fecero attraverso l’allegoria, l’enigma, la fantasia l’immaginazione.
Era nato il MITO, magica tela su cui scorrevano i ritmi della Vita: l’ineluttabilità del Fato, i paurosi Misteri della Natura, le inquietanti divinazioni delle Profetesse, i chiassosi riti delle Baccanti, le risate argentine delle Ninfe…
Dal greco nimpha, il termine letteralmente significa “fanciulla in età da marito”.
Personificazione delle forze della Natura, le Ninfe erano parte integrante di essa e, di conseguenza, avevano con la Natura un rapporto particolare: fiumi e laghi, mari e monti, prati e sorgenti, boschi e alberi… tutti avevano la propria Ninfa protettrice.
Erano fanciulle bellissime e dotate di straordinari poteri. Di animo gentile, erano sempre pronte a rendersi utili a Divinità e uomini.
Diana, Apollo, Dioniso e Soprattutto i Satiri, Geni della Natura, ricercavano continuamente la loro compagnia e i loro favori.
Talvolta le Ninfe si concedevano anche agli uomini, ma quei contatti finivano quasi sempre in drammi e tragedie, soprattutto se la Ninfa in questione era immortale.
Non tutte le Ninfe, infatti, al contrario degli Dei, erano immortali: le Ninfe dei Monti, quelle dei Boschi, ma soprattutto le Ninfe degli Alberi, erano mortali proprio come gli uomini, benché la loro vita fosse assai più lunga.
In onore di queste splendide creature gli Antichi praticarono culti risalenti addirittura in età arcaica; per propiziarsene i favori, innalzarono in loro onore Templi che chiamarono Ninfei, dove praticavano riti ed offrivano doni: latte, miele, frutta, vino e fiori.
Le Ninfe erano assai numerose, perché numerosi e sfaccettati erano gli elementi della Natura.
Le più conosciute di loro erano, forse, le Ninfe dell’Acqua: di Mare, di Fiume, di Lago, di Sorgente e perfino di Stagno.
Cantori e Poeti da sempre ci hanno fatto conoscere le mitiche Nereidi, le favolose Sirene, le splendide Oceanine e altre ancora.
Una prima classificazione la possiamo fare tra le Ninfe di Acqua e Ninfe di Terra
NINFE di Acqua salata (mari ed oceani)
- Oceanine
- Nereidi
NINFE di Acqua dolce
- Naiadi: ninfe di sorgenti
- Potameidi: ninfe di fiume
- Limniadi: ninfe di laghi
- Eleadi: ninfe di paludi
NINFE di Terra:
- Driade: ninfe dei boschi
- Amadriade: ninfe degli alberi
- Oreadi: ninfe dei monti
- Napee: ninfe delle valli
Ninfe di Terra

Schiamazzi e grida echeggiavano lungo ampie vallate e boschi ombrosi: erano i cortei di Baccanti e Satiri che facevano da corte a Bacco.
Lungo quegli stessi sentieri, però, a quelle grida si mischiavano allegri gridolini e risate squillanti:erano le Ninfe dei Boschi, delle Valli e dei Monti.
Erano giovani, belle e allegre e la loro fresca bellezza era l’immagine più dolce, serena e gentile della Natura.
Erano le Driadi, le Oreadi e le Napee…
LE DRIADI
Erano le Ninfe dei Boschi, figlie di Nereo e Dori e compagne di Euridice.
Ogni bosco aveva le sue Ninfe:
- Driade, si chiamavano quelle delle querce
- Meli’e era il nome delle ninfe del melo
- Melie erano le ninfe del frassino, figlio di Ermete.
Il frassino, chiamato anche “amico della folgore” era considerato un albero sacro. Era, infatti, tra le specie d’albero quello colpito più frequentemente dal fulmine e poiché gli alberi incendiati erano fonte di fuoco, era considerato il più sacro fra gli altri. La Ninfa che l’abitava, era tra le più rispettate e venerate e si fregiava anche del titolo di “Dama delFuoco”
AMADRIADE
Le Driadi erano mortali, al contrario delle Ninfe del Mare e degli Oceani. La loro vita, però, era assai lunga e scorreva in grande serenità ed allegria e soprattutto, conservando un’eterna giovinezza.
Le Driadi nascevano, crescevano e morivano con l’albero.
Ogni pianta che moriva, infatti, causava la morte della favolosa creatura che viveva nella corteccia che ne rivestiva l’albero.
Il nome era AMADRIADE.
Molti i racconti sorti intorno alla vita ed agli idilli innocenti delle Driadi e delle Amadriadi, intrecciati con Divinità e mortali.
LE OREADI
Erano le bellissime, giovanissime vergini Ninfe dei Monti, amanti della caccia, della natura e soprattutto della solitudine.
Figlie di Giove, trascorrevano le giornate tra vallete ombrose e boschi annosi e qualche volta seguivano in corteo le scorribande di Diana, la Dea della Caccia.
La più importante tra loro era certamente Eco, la cui triste storia d’amore la portò quasi alla morte.
LE NAPEE
Giovanissime, minute ed alate, erano le Ninfe dei Prati. Si esibivano in aeree danze sull’erba e sui prati con tanta grazia e leggerezza da sfiorare steli, foglie e corolle, senza piegarli.
Lucciole e farfalle erano le loro amiche, ma essendo dotate del potere della trasformazione, potevano mutarsi in leggiadre fanciulle e girovagare per monti, valli e foreste in perfetta solitudine
Ninfe d'Acqua

LE OCEANIDI
Erano figlie di Oceano ed erano in numero di cinquanta.
Dotate di grande bellezza e fascino particolare, simboleggiavano le Acque-della-Vita e per questa loro natura erano estremamente generose ed altruiste. Tra i loro compiti c’era quello di soccorrere i naviganti, per cui non era raro vederle comparire, come meravigliosi miraggi, fra le onde che sciabordavano contro le fiancate delle navi.
Le loro storie erano sempre un intreccio con altre storie e noi accenneremo ad alcune di loro: Anfitrite, Eurinone, Tetide, Elettra…
ANFITRITE
La ninfa più bella che si fosse mai vista tra i flutti del mare, Anfitrite era corteggiata da tutti, Divinità e mortali. Su di lei pose gli occhi lo stesso Poseidone, il Dio del Mare.
Come con gli altri spasimanti, anche al Signore dei Mari e degli Oceani, la bella ninfa, il cui nome letteralmente significa “terzo elemento” (il Mare; gli altri due elementi sono la Terra e il Cielo), graziosamente, ma fermamente, rifiutò sempre le profferte amorose.
Poseidone, però, non era abituato ai rifiuti e non si dava per vinto e Anfitrite per sfuggire ai suoi continui assalti, decise di lasciare la sua residenza marina e di rifugiarsi sul Monte Atlante.
Qui, però, continuavano incessantemente a giungere messaggeri inviati da Poseidone per cercare di convincerla a tornare in mare.
A convincerla, dopo numerosi tentativi falliti, ci riuscì Delfino, il quale con un’eloquenza pari solo alla perseveranza dello stesso Poseidone, vinse ogni resistenza della bellissima ninfa.
Anfitrite tornò da Poseidone.
I due convolarono a nozze e la bella ninfa andò a vivere in un Palazzo d’Oro nelle profondità delle acque come Regina degli Abissi.
Poseidone, però, benché molto innamorato della bella sposina, era un marito del tutto infedele: Dee, Ninfe, donne mortali… non se ne faceva scappare una.
Anfitrite alla fine perse la pazienza. Soprattutto con la bella Scilla, a cui il fedifrago marito riservava molte più attenzioni che alle altre donne.
Decise di vendicarsi e lo fece con una certa, pur comprensibile perfidia: versò delle erbe sconosciute nell’acqua dove la ninfa Scilla andava a bagnarsi e la trasformò in un mostro… quello che prese a tormentare i naviganti che passavano da quelle parti.
EURINONE
Generosa con tutte le creature, Eurinone lo fu in modo particolare con il povero Efesto quando il piccolo Dio fu scaraventato giù dall’Olimpo.
Figlio di Era (Giunone) e di padre quasi ignoto
(neppure Giove voleva riconoscerne la paternità), Efesto (o Vulcano), che sarebbe diventato un giorno il Dio più forte, violento ed irascibile dell’Olimpo, alla nascita era un tesserino debole e deforme.
E soprattutto brutto.
Tanto brutto che perfino sua madre lo rifiutò e pensò subito di disfarsene scaraventandolo giù in mare: un atto che, diventato adulto, il Signore del Fuoco non dimenticò e ricambiò… ma questa è un’altra storia.
Eurinone si prese cura del piccolo derelitto: lo allevò, lo curò e lo educò come una vera madre ed Efesto fu a lei eternamente grato.
Bellissima, il volto candido come la perla, i capelli lunghissimi e dagli argentei riflessi blu, le braccia sode e il seno florido, Eurinone, però, non era come le sorelle: lei era metà donna e metà pesce, ma non era una Sirena, creatura metà donna e metà uccello.
TETIDE
Sicuramente la più conosciuta fra tutte le ninfe: Tetide, infatti, era la madre dell’eroe Achille…una storia di cui ci oppure meno in altra sede.
Di lei si invaghì il dio del Mare, Poseidone e la chiese in sposa.
L’Oracolo, però predisse che il figlio di Tetide da adulto sarebbe stato più famoso del padre ed a Poseidone la cosa non sarebbe garbata per niente.
Nonostante l’amore sincero che nutriva per la bella Tetide, rinunciò al matrimonio, scegliendo la sorella Anfitrite.
ELETTRA
Signora dell’Ambra.
Letteralmente la parola elettra vuol dire proprio ambra.
La ninfa soleva raccogliere le lacrime che scorrevano dagli occhi delle figlie di Elio e l’ambra era sacra al Sole. La via dell’Ambra, che correva nel Mediterraneo era continuamente percorsa da marinai per l’importanza che questa rara sostanza marina aveva nei commerci.
L’Argo, infine, la nave degli Argonauti, che ne seguì la rotta durante il viaggio per la Colchide alla conquista del Vello d’Oro, fu proprio nell’isola di Elettra che approdò e non a Samotracia, come sostenuto da alcuni storici antichi.
Le Nereidi - Ninfe di Mare
ARETUSA
Una delle più belle Nereidi, ma assolutamente refrattaria al matrimonio. Per questa ragione, forse, era diventata inseparabile compagna di un’altra Dea, Diana, contraria come lei ad ogni approccio amoroso.
Un giorno la ninfa si bagnò nel fiume Alfeo il quale alla vista delle sue beltà, si infiammò d’amore. Assunte sembianze umane, Alfeo tentò di usarle violenza. Aretusa per sfuggirgli invocò l’aiuto di Diana che la trasformò in una sorgente, ma Alfeo tornato fiume, unì le sue acque a quelle della sorgente.
ANDROMEDA
Figlia di re Cefeo, la principessa Andromeda era talmente bella che sua madre, la regina Cassiopea, accecata da materno orgoglio osò paragonare la sua bellezza a quella delle ninfe Nereidi.
“Al confronto della bellezza della mia Andromeda – si lasciò sfuggire un giorno – le avvenenti figlie della divina Doride apparirebbero come una bella giornata durante l’eclissi.”
Non l’avesse mai detto!
La divina Doride, ma soprattutto le sue cinquanta figlie, si sentirono così offese da tanto ardire che escogitarono un tiro davvero briccone per mettere fuori gioco la bellissima Andromeda.
Pregarono e convinsero Poseidone,Re delMare, ad inviare fuori delle acque del mare un mostro che terrorizzasse il regno di Cefeo.
Il mostro arrivò, puntuale e terrificante, a devastare isole e litorali. Per far cessare tanto flagello, l’Oracolo, interpellato, rispose che solo il sacrificio della bella Andromeda avrebbe placato la collera delle Nereidi.
Sia pur cpn gran dolore , la povera Andromeda non si sottrasse al suo destino. Incatenata ad uno scoglio, aspettava che il mostro uscisse fuori delle acque del mare e facesse di lei un gustoso spuntino.
Il mostro arrivò, ma, immancabile, arrivò anche l’eroe di turno che salvò dalle sue fauci la bella fanciulla… quell’eroe si chiamava Perseo. Era un giovane forte e coraggioso che già aveva sistemato per benino quell’altro mostro che era la Medusa, una delle tre Gorgoni, ma… ma questa è un’altra storia.
LE NAIADI: ninfe di sorgenti
Allegre, gioiose, festevoli e chiacchierine come le acque in cui vivevano; la loro casa era un Palazzo Incantato che, sorgeva nei pressi di torrenti, fiumi, laghi, fonti e sorgenti. Avevano il compito di rendere le acque limpide e scorrevoli e di nutrire la vegetazione e renderla verde e lussureggiante.
Erano fanciulle di fresca bellezza e dall’allegro sorriso; erano mortali, ma dall’eterna giovinezza.
Possedevano molte altre virtù, come quella di assumere qualunque forma volessero.
La loro esistenza era un continuo intreccio di giochi, danze e canti. Comparivano e scomparivano con la rapidità di una lucciola, tra ciottolame, rivoletti, cascate e corsi d’acqua, in un susseguirsi di giochi di metamorfosi e trasformazioni.
Dei, Satiri e cacciatori eraono irresistibilmente attratti dai loro canti e dalla loro fresca bellezza e il gioco della trasformazione diventava spesso un mezzo per sfuggire loro: basta l’esempio di Apollo e Dafne.
ILA
Non sempre, però, erano le Ninfe a subire assalti amorosi, qualche volta erano proprio loro metterli in atto.
Ne fece le spese Ila, compagno di Ercole durante il viaggio degli Argonauti verso la Colchide.
Ila, uno dei rematori, era un ragazzo bellissimo e di grande fascino ed Ercole lo amava come un figlio. Mentre era intento alla voga, il ragazzo perse il suo remo per cui si dovette scendere a terra per cercare un albero adatto per fabbricaerne un altro.
Così fecero. Sbarcarono Ila, Ercole e un certo Poliremo (non quello dell’unico occhio).
Cercato e trovato l’albero e il ramo adatto, Ercole si pose subito al lavoro per abbatterlo, mentre Ila si allontanava verso una sorgente lì vicino, per attingere acqua per sé e compagni.
Nell’acqua c’era uno stuolo di Naiadi che stavano allegramente trascorrendo qualche ora di ozio.
Alla vista del bellissimo giovane, smisero di giocare.
Appena, però, il ragazzo sporse il braccio verso il ciglio per raccogliere acqua con la brocca d’argento, le ninfe sollevarono le loro braccia e lo attirarono con loro sul fondo.
Polifemo, che a qualche metro di distanza aveva assistito alla scena, comimciò ad urlare e le sue urla attirarono l’attenzione di Ercole che accorse immediatamente.
Quando, però, l’eroe raggiunse la sorgente l’acqua era cheta e tranquilla e di Ila non c’era alcuna traccia, come non ve n’era delle ninfe.
GIUTURNA
La ninfa di sorgente più famosa della mitologia romana.
Moglie di Giano, era la madre di Turno, re dei Rutuli ed avversario di Enea.
Su di lui pendeva un oracolo secondo il quale sarebbe morto per mano di Enea, figlio di Venere.
La ninfa si oppose con tutte le sue forze all' avverso destino del figlio, ma nulla potè contro di esso.
Alla fine, Enea, cui Turno era diventato acerrimo nemico per avergli portato via Lavinia, figlia di Latino, Re del Lazio, finì per ucciderlo.
Alla fonte di Giuturna, nel Foro Romano, la leggenda narra che si siano abbeverati i cavalli dei Dioscuri:Castore e Polluce.
PATAMEIDI: ninfe dei fiumi
Erano fanciulle e ancora vergini, di età assai giovanile. Loro compito era proteggere la natura, renderla piacevole e lussureggiante.
Altro compito, quello di proteggere gli amori appena sbocciati, per cui erano invocate da fidanzati, i quali andavano a bagnarsi nelle acque di fiume invocando la fertilità per dopo le nozze.
Erano anche guaritrici e le acque in cui vivevano erano benefiche e curatrici di diverse malattie, compresa quella della sterilità (incubo per molte donne) Erano mortali, ma vivevano a lungo ed eternamente giovani, per cui la loro era un’esistenza felice trascorsa tra canti, danze e brevi storie d’amore.
DAFNE
Bellissima ninfa dei fiumi, Dafne era figlia di Gea, la Madre-Terra, di cui era anche sacerdotessa.
Dafne era piuttosto refrattaria al matrimonio, come molte ninfe, che preferivano la spensierata vita dell’adolescenza. La sua grande bellezza, però,le attirò inevitabilmente l’attenzione di molti corteggiatori, così come il latte attrae le mosche.
Due in particolare: Apollo e un certo Leucippo.
Dafne respinse anche loro, come avev fatto con tutti gli altri.
Leucippo, però, riuscì a starle vicino ricorrendo ad un ingegnoso stratagemma: si travestì da donna ed entrò far parte del gruppo di compagne, altre ninfe, con cui di solito si intratteneva sulle sponde dei fiumi.
Apollo scoprì l’inganno e per liberarsi del rivale escogitò un sistema davvero particolare e crudele: indusse le ninfe a bagnarsi nelle acque del fiume e quando le ninfe scoprirono la diversità di quella che credevano una loro compagna, l’assalirono e l’uccisero.
Apollo, però, con il suo stratagemma non riuscì che a farsi respingere per l’ennesima volta dalla sua bella.
Per sfuggirgli, inseguita da Apollo, Dafne invocò il soccorso materno e Gea, la Dea-Madre, la trasformò in alloro, la corona dei poeti e dei cantori.
Erano figlie di Oceano ed erano in numero di cinquanta.
Dotate di grande bellezza e fascino particolare, simboleggiavano le Acque-della-Vita e per questa loro natura erano estremamente generose ed altruiste. Tra i loro compiti c’era quello di soccorrere i naviganti, per cui non era raro vederle comparire, come meravigliosi miraggi, fra le onde che sciabordavano contro le fiancate delle navi.
Le loro storie erano sempre un intreccio con altre storie e noi accenneremo ad alcune di loro: Anfitrite, Eurinone, Tetide, Elettra…
ANFITRITE
La ninfa più bella che si fosse mai vista tra i flutti del mare, Anfitrite era corteggiata da tutti, Divinità e mortali. Su di lei pose gli occhi lo stesso Poseidone, il Dio del Mare.
Come con gli altri spasimanti, anche al Signore dei Mari e degli Oceani, la bella ninfa, il cui nome letteralmente significa “terzo elemento” (il Mare; gli altri due elementi sono la Terra e il Cielo), graziosamente, ma fermamente, rifiutò sempre le profferte amorose.
Poseidone, però, non era abituato ai rifiuti e non si dava per vinto e Anfitrite per sfuggire ai suoi continui assalti, decise di lasciare la sua residenza marina e di rifugiarsi sul Monte Atlante.
Qui, però, continuavano incessantemente a giungere messaggeri inviati da Poseidone per cercare di convincerla a tornare in mare.
A convincerla, dopo numerosi tentativi falliti, ci riuscì Delfino, il quale con un’eloquenza pari solo alla perseveranza dello stesso Poseidone, vinse ogni resistenza della bellissima ninfa.
Anfitrite tornò da Poseidone.
I due convolarono a nozze e la bella ninfa andò a vivere in un Palazzo d’Oro nelle profondità delle acque come Regina degli Abissi.
Poseidone, però, benché molto innamorato della bella sposina, era un marito del tutto infedele: Dee, Ninfe, donne mortali… non se ne faceva scappare una.
Anfitrite alla fine perse la pazienza. Soprattutto con la bella Scilla, a cui il fedifrago marito riservava molte più attenzioni che alle altre donne.
Decise di vendicarsi e lo fece con una certa, pur comprensibile perfidia: versò delle erbe sconosciute nell’acqua dove la ninfa Scilla andava a bagnarsi e la trasformò in un mostro… quello che prese a tormentare i naviganti che passavano da quelle parti.
EURINONE
Generosa con tutte le creature, Eurinone lo fu in modo particolare con il povero Efesto quando il piccolo Dio fu scaraventato giù dall’Olimpo.
Figlio di Era (Giunone) e di padre quasi ignoto
(neppure Giove voleva riconoscerne la paternità), Efesto (o Vulcano), che sarebbe diventato un giorno il Dio più forte, violento ed irascibile dell’Olimpo, alla nascita era un tesserino debole e deforme.
E soprattutto brutto.
Tanto brutto che perfino sua madre lo rifiutò e pensò subito di disfarsene scaraventandolo giù in mare: un atto che, diventato adulto, il Signore del Fuoco non dimenticò e ricambiò… ma questa è un’altra storia.
Eurinone si prese cura del piccolo derelitto: lo allevò, lo curò e lo educò come una vera madre ed Efesto fu a lei eternamente grato.
Bellissima, il volto candido come la perla, i capelli lunghissimi e dagli argentei riflessi blu, le braccia sode e il seno florido, Eurinone, però, non era come le sorelle: lei era metà donna e metà pesce, ma non era una Sirena, creatura metà donna e metà uccello.
TETIDE
Sicuramente la più conosciuta fra tutte le ninfe: Tetide, infatti, era la madre dell’eroe Achille…una storia di cui ci oppure meno in altra sede.
Di lei si invaghì il dio del Mare, Poseidone e la chiese in sposa.
L’Oracolo, però predisse che il figlio di Tetide da adulto sarebbe stato più famoso del padre ed a Poseidone la cosa non sarebbe garbata per niente.
Nonostante l’amore sincero che nutriva per la bella Tetide, rinunciò al matrimonio, scegliendo la sorella Anfitrite.
ELETTRA
Signora dell’Ambra.
Letteralmente la parola elettra vuol dire proprio ambra.
La ninfa soleva raccogliere le lacrime che scorrevano dagli occhi delle figlie di Elio e l’ambra era sacra al Sole. La via dell’Ambra, che correva nel Mediterraneo era continuamente percorsa da marinai per l’importanza che questa rara sostanza marina aveva nei commerci.
L’Argo, infine, la nave degli Argonauti, che ne seguì la rotta durante il viaggio per la Colchide alla conquista del Vello d’Oro, fu proprio nell’isola di Elettra che approdò e non a Samotracia, come sostenuto da alcuni storici antichi.
Le Nereidi - Ninfe di Mare
ARETUSA
Una delle più belle Nereidi, ma assolutamente refrattaria al matrimonio. Per questa ragione, forse, era diventata inseparabile compagna di un’altra Dea, Diana, contraria come lei ad ogni approccio amoroso.
Un giorno la ninfa si bagnò nel fiume Alfeo il quale alla vista delle sue beltà, si infiammò d’amore. Assunte sembianze umane, Alfeo tentò di usarle violenza. Aretusa per sfuggirgli invocò l’aiuto di Diana che la trasformò in una sorgente, ma Alfeo tornato fiume, unì le sue acque a quelle della sorgente.
ANDROMEDA
Figlia di re Cefeo, la principessa Andromeda era talmente bella che sua madre, la regina Cassiopea, accecata da materno orgoglio osò paragonare la sua bellezza a quella delle ninfe Nereidi.
“Al confronto della bellezza della mia Andromeda – si lasciò sfuggire un giorno – le avvenenti figlie della divina Doride apparirebbero come una bella giornata durante l’eclissi.”
Non l’avesse mai detto!
La divina Doride, ma soprattutto le sue cinquanta figlie, si sentirono così offese da tanto ardire che escogitarono un tiro davvero briccone per mettere fuori gioco la bellissima Andromeda.
Pregarono e convinsero Poseidone,Re delMare, ad inviare fuori delle acque del mare un mostro che terrorizzasse il regno di Cefeo.
Il mostro arrivò, puntuale e terrificante, a devastare isole e litorali. Per far cessare tanto flagello, l’Oracolo, interpellato, rispose che solo il sacrificio della bella Andromeda avrebbe placato la collera delle Nereidi.
Sia pur cpn gran dolore , la povera Andromeda non si sottrasse al suo destino. Incatenata ad uno scoglio, aspettava che il mostro uscisse fuori delle acque del mare e facesse di lei un gustoso spuntino.
Il mostro arrivò, ma, immancabile, arrivò anche l’eroe di turno che salvò dalle sue fauci la bella fanciulla… quell’eroe si chiamava Perseo. Era un giovane forte e coraggioso che già aveva sistemato per benino quell’altro mostro che era la Medusa, una delle tre Gorgoni, ma… ma questa è un’altra storia.
LE NAIADI: ninfe di sorgenti
Allegre, gioiose, festevoli e chiacchierine come le acque in cui vivevano; la loro casa era un Palazzo Incantato che, sorgeva nei pressi di torrenti, fiumi, laghi, fonti e sorgenti. Avevano il compito di rendere le acque limpide e scorrevoli e di nutrire la vegetazione e renderla verde e lussureggiante.
Erano fanciulle di fresca bellezza e dall’allegro sorriso; erano mortali, ma dall’eterna giovinezza.
Possedevano molte altre virtù, come quella di assumere qualunque forma volessero.
La loro esistenza era un continuo intreccio di giochi, danze e canti. Comparivano e scomparivano con la rapidità di una lucciola, tra ciottolame, rivoletti, cascate e corsi d’acqua, in un susseguirsi di giochi di metamorfosi e trasformazioni.
Dei, Satiri e cacciatori eraono irresistibilmente attratti dai loro canti e dalla loro fresca bellezza e il gioco della trasformazione diventava spesso un mezzo per sfuggire loro: basta l’esempio di Apollo e Dafne.
ILA
Non sempre, però, erano le Ninfe a subire assalti amorosi, qualche volta erano proprio loro metterli in atto.
Ne fece le spese Ila, compagno di Ercole durante il viaggio degli Argonauti verso la Colchide.
Ila, uno dei rematori, era un ragazzo bellissimo e di grande fascino ed Ercole lo amava come un figlio. Mentre era intento alla voga, il ragazzo perse il suo remo per cui si dovette scendere a terra per cercare un albero adatto per fabbricaerne un altro.
Così fecero. Sbarcarono Ila, Ercole e un certo Poliremo (non quello dell’unico occhio).
Cercato e trovato l’albero e il ramo adatto, Ercole si pose subito al lavoro per abbatterlo, mentre Ila si allontanava verso una sorgente lì vicino, per attingere acqua per sé e compagni.
Nell’acqua c’era uno stuolo di Naiadi che stavano allegramente trascorrendo qualche ora di ozio.
Alla vista del bellissimo giovane, smisero di giocare.
Appena, però, il ragazzo sporse il braccio verso il ciglio per raccogliere acqua con la brocca d’argento, le ninfe sollevarono le loro braccia e lo attirarono con loro sul fondo.
Polifemo, che a qualche metro di distanza aveva assistito alla scena, comimciò ad urlare e le sue urla attirarono l’attenzione di Ercole che accorse immediatamente.
Quando, però, l’eroe raggiunse la sorgente l’acqua era cheta e tranquilla e di Ila non c’era alcuna traccia, come non ve n’era delle ninfe.
GIUTURNA
La ninfa di sorgente più famosa della mitologia romana.
Moglie di Giano, era la madre di Turno, re dei Rutuli ed avversario di Enea.
Su di lui pendeva un oracolo secondo il quale sarebbe morto per mano di Enea, figlio di Venere.
La ninfa si oppose con tutte le sue forze all' avverso destino del figlio, ma nulla potè contro di esso.
Alla fine, Enea, cui Turno era diventato acerrimo nemico per avergli portato via Lavinia, figlia di Latino, Re del Lazio, finì per ucciderlo.
Alla fonte di Giuturna, nel Foro Romano, la leggenda narra che si siano abbeverati i cavalli dei Dioscuri:Castore e Polluce.
PATAMEIDI: ninfe dei fiumi
Erano fanciulle e ancora vergini, di età assai giovanile. Loro compito era proteggere la natura, renderla piacevole e lussureggiante.
Altro compito, quello di proteggere gli amori appena sbocciati, per cui erano invocate da fidanzati, i quali andavano a bagnarsi nelle acque di fiume invocando la fertilità per dopo le nozze.
Erano anche guaritrici e le acque in cui vivevano erano benefiche e curatrici di diverse malattie, compresa quella della sterilità (incubo per molte donne) Erano mortali, ma vivevano a lungo ed eternamente giovani, per cui la loro era un’esistenza felice trascorsa tra canti, danze e brevi storie d’amore.
DAFNE
Bellissima ninfa dei fiumi, Dafne era figlia di Gea, la Madre-Terra, di cui era anche sacerdotessa.
Dafne era piuttosto refrattaria al matrimonio, come molte ninfe, che preferivano la spensierata vita dell’adolescenza. La sua grande bellezza, però,le attirò inevitabilmente l’attenzione di molti corteggiatori, così come il latte attrae le mosche.
Due in particolare: Apollo e un certo Leucippo.
Dafne respinse anche loro, come avev fatto con tutti gli altri.
Leucippo, però, riuscì a starle vicino ricorrendo ad un ingegnoso stratagemma: si travestì da donna ed entrò far parte del gruppo di compagne, altre ninfe, con cui di solito si intratteneva sulle sponde dei fiumi.
Apollo scoprì l’inganno e per liberarsi del rivale escogitò un sistema davvero particolare e crudele: indusse le ninfe a bagnarsi nelle acque del fiume e quando le ninfe scoprirono la diversità di quella che credevano una loro compagna, l’assalirono e l’uccisero.
Apollo, però, con il suo stratagemma non riuscì che a farsi respingere per l’ennesima volta dalla sua bella.
Per sfuggirgli, inseguita da Apollo, Dafne invocò il soccorso materno e Gea, la Dea-Madre, la trasformò in alloro, la corona dei poeti e dei cantori.
MUSE ed ERINNI
LE MUSE

INTRODUZIONE
Muse ed Erinni! Creature assai contrastanti e nel carattere e nell’aspetto: bellissime le prime ed orrende le seconde; le Muse apparentemente generose (sottolineo apparentemente) e le Erinni implacabili.
Eppure, hanno qualcosa in comune… o, forse, più di qualcosa, come si vedrà di seguito.
“Dalle Muse e da Apollo Lungi-Saettante, - recita Esiodo – gli uomini sono sulla Terra cantori e citaristi, re da Dia. Felice colui che le Muse hanno caro: dolce a lui dalla bocca scorre la parola…”
Non meno enfatico si mostra Platone:
“… chi senza follia di Musa, al Palagio regale di Poesia s’avvicina, convinto di diventar poeta per forza d’arte, inutile, lui e la sua poesia: di fronte alla poesia dei folli, la poesia del savio, ottenebrata, scompare.”
Le Muse o Mneiadi (dalla madre Mnemosine), erano le Dee del Canto e della Poesia. Tre, secondo alcune fonti; nove, secondo altre.
Figlie di Giove e di Mnemosine, la Memoria, i loro nomi ed epiteti erano:
- Melete o l’Esercizio
- Mneme o la Memoria
- Aoide o il Canto
riguardo il numero di tre; in numero di nove, invece, erano:
- Clio, la Glorificata
- Enterpe, la Rallegrante
- Talia, la Festosa
- Melpomene, la Cantante
- Tersicore, la Danzatrice
- Erato, la Nostalgica
- Urania, la Celeste
- Polimnia, la Ricca di Inni
- Calliope, il Bel Canto
Nessuna di loro,però, aveva una sola prerogativa: Clio, ad esempio, era anche la Musa della Storiografia, mentre Erato era anche la Musa della Poesia Amorosa e Calliope lo era del Canto Epico.
La più nota e anche la più celebrata è, senza dubbio, quest’ultima, ma tutte con il loro canto e la loro musica incantavano Natura, uomini ed animali e gli stessi Dei. Perfino il
monte Elicone, su cui le bellissime Dee avevano fissato la loro dimora, si lasciava incantare e rapire dal loro canto e dal suono delle loro lire al punto da continuare a svettare verso il cielo.
Fu l’alato Pegaso che fermò quella crescita con un bel colpo di zoccolo alla cima più alta.
Pegaso, il cavallo alato, frequentava assiduamente il monte Elicone perché le Muse gradivano molto la sua compagnia e si dice che l’alato figlio della Medusa abbia fatto scaturire la sorgente Ippocrene proprio per dissetare le bellissime, divine amiche.
Allegre e spensierate, esclusivamente dedite al canto e alla poesia, le Muse rallegravano i banchetti divini; soprattutto quelli nuziali.
Famoso quello delle nozze di Teti con Peleo.
In quell’occasione furono invitati tutti gli Dei, tranne Eris, la Dea della Discordia. Quella, però, si presentò con una splendida mela rossa che gettò sul tavolo prima di allontanarsi con la ormai a tutti nota frase:
“Alla più bella!”
L’episodio passò alla mitologia come il pomo della discordia e come tutti sanno, fu all’origine della disastrosa guerra di Troia… ma quella è un’altra storia.
Belle, gioviali e anche generose: le Muse insegnarono l’arte della guarigione e della profezia.
Belle e generose! Certo! Ma anche gelose e vendicative. Gelose della propria arte e vendicative con chi provasse ad eguagliarla.
Come dimostrano episodi come quelli con le Sirene o con Tamiri.
Tamiri era un giovane bellissimo, ma era anche il primo uomo ad innamorarsi di qualcuno appartenente al suo stesso sesso.
Non che la cosa scandalizzasse qualcuno!
Uomini e donne erano invaghiti di lui, mentre egli era perdutamente innamorato di Giacinto, il mortale più avvenente della terra.
Per sua disgrazia, però, Tamiri aveva come rivale nientemeno che Apollo il quale si liberò di lui nel modo più infido e crudele: disse alle Muse che quegli si era vantato di essere più bravo di loro nell’arte del canto.
La reazione delle bellissime, vendicative, divine fanciulle, fu immediata e spietata: lo accecarono, lo resero sordo e lo privarono della memoria.
Più spietate ancora, quelle gioiose, divine fanciulle si mostrarono con le Sirene in una sfida di canto.
Benché il canto delle Sirene fosse meraviglioso e perfino più ammaliante di quello delle Muse, la dea Era, che doveva fare da Giudice, per compiacere il capriccioso consorte assegnò alle Muse la palma della vittoria.
Fu così che le Sirene persero le ali e le Muse acquistarono l’aureola: con le piume delle ali strappate alle Sirene, le Muse intrecciarono corone con cui si cinsero il capo.
LE ERINNI

LE ERINNI
Nate dall’unione fra Aria e Madre Terra, le Erinni erano più antiche di ogni altra Divinità e vivevano nell’Erebo (Inferno), si accompagnandosi spesso ad Ecate, Dea infera.
Interessante sapere che in quello stesso “evento” nacquero anche:
- Terrore, Collera, Lite, Paura, Vendetta, Battaglia e Oblio, ma anche:
- Destrezza, Valore, Giuramento, Trattato.
Le Erinni erano tre e loro nomi erano: Aloto, Tisifone eMegera. Il loro aspetto era davvero orrendo: vecchie, decrepite e con la pelle nera come il carbone; per capelli esibivano un contorto cespuglio di teste di serpenti e su un corpo umano reggevano teste di cane ed ali di pipistrello; le mani, infine, erano ungulate e provviste di pungoli con punte di bronzo per procurare ai perseguitati i più indicibili tormenti.
Questo, bisogna precisare, era l’aspetto delle Erinni-Infuriate, (le Furie,le chiamavano i romani).
C’erano anche le Erinni-Placate e il loro aspetto era assai più rassicurante, poiché era quello di maestose matrone.
Il loro appellativo era: Eumenidi, ossia “Gentili” oppure “Solenni”, poiché tale era la loro natura quando agivano in quella veste.
I loro compiti erano molteplici: ascoltare le suppliche degli anziani contro le insolenze dei giovani, accogliere le istanze degli ospiti maltrattati nei confronti degli ospitanti, punire lo spergiuro, le colpe e le offese verso padri e fratelli, ma, soprattutto, perseguitare senza tregua coloro che si macchiavano di matricidio. Esse erano la personificazione dei rimorsi che tormentavano le coscienze dei colpevoli e placarle, significava placare la propria coscienza attraverso il perdono e l’oblio.
Al supplice si faceva cingere il capo con ghirlande di narcisi e sempreverdi e stessi fiori si offrivano alle Erinni: il narciso,
fiore noto per le propiertà narcotiche (da cui il nome), che aiutava a dimenticare.
Purificarsi era essenzial. Non solo per il colpevole, ma anche per coloro che gli stavano vicino, poiché correvano il rischio di incorrere nelle stesse persecuzioni. Inoltre, era prudente non fare mai il loro nome durante una conversazione, se non con l’appellativo di Eumenidi.
Riti di purificazione, ghirlande, libagioni e il sacrificio di un ariete o di una pecora nera, bastavano a placare le nere signore dei tormenti, le “Solenni”.
Tutti gli anni, in ricorrenza di feste in loro onore, i sacerdoti, tutti discendenti di re Esichio, officiavano davanti alle grotte in cui vivevano. Sopra altari di terra nera e tra cespugli di sempreverdi, i fedeli, tutti con il capo coperto con ghirlande di sempreverdi e narcisi, offrivano miele, fiori e il sangue di una pecora: davanti a quei doni, le “Auguste Matrone” non sarebbero riuscite a resistere: si sarebbero cibate di quel miele e dissetate di qul sangue ed avrebbero risparmiato l’intero gregge e la comunità tutta.
Furono molti gli Eroi, i Principi ed i Re inseguiti dalle Erinni per le loro colpe, ma la persona a cui davvero non concedettero tregua fu il principe Oreste, figlio matricida di Clitennesta, moglie di Agamennone. Anche quella, affato innocente: con l’amante, aveva ucciso il marito Agamennone, di ritorno dalla guerra di Troia.
Le Erinni, però, quasi la ignorarono. Forse perché il matricidio era una colpa assai più grave dell’uxoricidio.
Continuarono a tormentarlo anche dopo il rito di purificazione cui Oreste si era sottoposto: capo rasato, abluzioni in acqua corrente ed esilio di un anno.
Non gli concessero un attimo di tregua; dormivano perfino accanto a lui.
Fu proprio mentre erano immerse nel sonno che Apollo, intervenuto in favore del giovane perseguitato, riuscì a farlofuggire con l’aiuto di Ermete.
Lo spettro di Clitennestra, però, le svegliò e quelle ripresero l’inseguimento.
Dopo aver vagabondato di città in città, regione in regione, per un anno intero, Oreste raggiunse il Tempio di Atena, sull’Acropoli di Atene: per completare il rito di purificazione, il supplice doveva abbracciare il simulacro della Dea.
Qui lo raggiunsero le Erinni, ansanti per la corsa e veramente infuriate. E ancora di più si infuriarono, quando appresero che il giovane principe era stato sottoposto a giudizio e perdonato della colpa.
Per protesta contro quel verdetto, Tisifone, si dice, si sia impiccata per offrirsi in espiazione dell’orrendo peccato.
Nate dall’unione fra Aria e Madre Terra, le Erinni erano più antiche di ogni altra Divinità e vivevano nell’Erebo (Inferno), si accompagnandosi spesso ad Ecate, Dea infera.
Interessante sapere che in quello stesso “evento” nacquero anche:
- Terrore, Collera, Lite, Paura, Vendetta, Battaglia e Oblio, ma anche:
- Destrezza, Valore, Giuramento, Trattato.
Le Erinni erano tre e loro nomi erano: Aloto, Tisifone eMegera. Il loro aspetto era davvero orrendo: vecchie, decrepite e con la pelle nera come il carbone; per capelli esibivano un contorto cespuglio di teste di serpenti e su un corpo umano reggevano teste di cane ed ali di pipistrello; le mani, infine, erano ungulate e provviste di pungoli con punte di bronzo per procurare ai perseguitati i più indicibili tormenti.
Questo, bisogna precisare, era l’aspetto delle Erinni-Infuriate, (le Furie,le chiamavano i romani).
C’erano anche le Erinni-Placate e il loro aspetto era assai più rassicurante, poiché era quello di maestose matrone.
Il loro appellativo era: Eumenidi, ossia “Gentili” oppure “Solenni”, poiché tale era la loro natura quando agivano in quella veste.
I loro compiti erano molteplici: ascoltare le suppliche degli anziani contro le insolenze dei giovani, accogliere le istanze degli ospiti maltrattati nei confronti degli ospitanti, punire lo spergiuro, le colpe e le offese verso padri e fratelli, ma, soprattutto, perseguitare senza tregua coloro che si macchiavano di matricidio. Esse erano la personificazione dei rimorsi che tormentavano le coscienze dei colpevoli e placarle, significava placare la propria coscienza attraverso il perdono e l’oblio.
Al supplice si faceva cingere il capo con ghirlande di narcisi e sempreverdi e stessi fiori si offrivano alle Erinni: il narciso,
fiore noto per le propiertà narcotiche (da cui il nome), che aiutava a dimenticare.
Purificarsi era essenzial. Non solo per il colpevole, ma anche per coloro che gli stavano vicino, poiché correvano il rischio di incorrere nelle stesse persecuzioni. Inoltre, era prudente non fare mai il loro nome durante una conversazione, se non con l’appellativo di Eumenidi.
Riti di purificazione, ghirlande, libagioni e il sacrificio di un ariete o di una pecora nera, bastavano a placare le nere signore dei tormenti, le “Solenni”.
Tutti gli anni, in ricorrenza di feste in loro onore, i sacerdoti, tutti discendenti di re Esichio, officiavano davanti alle grotte in cui vivevano. Sopra altari di terra nera e tra cespugli di sempreverdi, i fedeli, tutti con il capo coperto con ghirlande di sempreverdi e narcisi, offrivano miele, fiori e il sangue di una pecora: davanti a quei doni, le “Auguste Matrone” non sarebbero riuscite a resistere: si sarebbero cibate di quel miele e dissetate di qul sangue ed avrebbero risparmiato l’intero gregge e la comunità tutta.
Furono molti gli Eroi, i Principi ed i Re inseguiti dalle Erinni per le loro colpe, ma la persona a cui davvero non concedettero tregua fu il principe Oreste, figlio matricida di Clitennesta, moglie di Agamennone. Anche quella, affato innocente: con l’amante, aveva ucciso il marito Agamennone, di ritorno dalla guerra di Troia.
Le Erinni, però, quasi la ignorarono. Forse perché il matricidio era una colpa assai più grave dell’uxoricidio.
Continuarono a tormentarlo anche dopo il rito di purificazione cui Oreste si era sottoposto: capo rasato, abluzioni in acqua corrente ed esilio di un anno.
Non gli concessero un attimo di tregua; dormivano perfino accanto a lui.
Fu proprio mentre erano immerse nel sonno che Apollo, intervenuto in favore del giovane perseguitato, riuscì a farlofuggire con l’aiuto di Ermete.
Lo spettro di Clitennestra, però, le svegliò e quelle ripresero l’inseguimento.
Dopo aver vagabondato di città in città, regione in regione, per un anno intero, Oreste raggiunse il Tempio di Atena, sull’Acropoli di Atene: per completare il rito di purificazione, il supplice doveva abbracciare il simulacro della Dea.
Qui lo raggiunsero le Erinni, ansanti per la corsa e veramente infuriate. E ancora di più si infuriarono, quando appresero che il giovane principe era stato sottoposto a giudizio e perdonato della colpa.
Per protesta contro quel verdetto, Tisifone, si dice, si sia impiccata per offrirsi in espiazione dell’orrendo peccato.