UNIVERSO DONNA
INDICE
- NELL'HAREM
* L'harem nella cultura araba
* L'harem nell'antica cultura
* L''harem nella cultura cinese
- D... come DONNA
* Donne violate
* L'abbigliamento femminile nella Storia
*
-
- CONDIZIONE della DONNA nella STORIA
* La Donna moderna
* La donna nella cultura biblica
* La donna nella cultura islamica
* La donna nella cultura cristiana
* La donna nella cultura cinese
* La donna del Rinascimento
* La donna Bizantina
* La donna etrusca
* La donna romana
* La donna greca
* La donna egizia
* La donna neolitica
- PERSONAGGI FEMMINILI nel MITO e nella STORIA:
* HUTHSEPSUTH Regina-Faraone
* ALISSA-DIDONE Regina di Cartagine
* BOUDICCA Regina-Guerriera
* ATALIA Regina Sanguinaria
* PENELOPE... La più fedele?
* MEDEA Madre snaturata
* CLEOPATRA L'ultima regina egizia
* CRIMILDE l'implacabile vendicatrice
* BRUNILDE la Valchiria
* TEODORA la Basilissa
* ZENOBIA - Regina di Palmira
- NELL'HAREM
* L'harem nella cultura araba
* L'harem nell'antica cultura
* L''harem nella cultura cinese
- D... come DONNA
* Donne violate
* L'abbigliamento femminile nella Storia
*
-
- CONDIZIONE della DONNA nella STORIA
* La Donna moderna
* La donna nella cultura biblica
* La donna nella cultura islamica
* La donna nella cultura cristiana
* La donna nella cultura cinese
* La donna del Rinascimento
* La donna Bizantina
* La donna etrusca
* La donna romana
* La donna greca
* La donna egizia
* La donna neolitica
- PERSONAGGI FEMMINILI nel MITO e nella STORIA:
* HUTHSEPSUTH Regina-Faraone
* ALISSA-DIDONE Regina di Cartagine
* BOUDICCA Regina-Guerriera
* ATALIA Regina Sanguinaria
* PENELOPE... La più fedele?
* MEDEA Madre snaturata
* CLEOPATRA L'ultima regina egizia
* CRIMILDE l'implacabile vendicatrice
* BRUNILDE la Valchiria
* TEODORA la Basilissa
* ZENOBIA - Regina di Palmira
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NELL'HAREM
L'harem nella cultura araba
L'harem nella cultura araba Fu l'istituto della poligamia a favorire l'uso dell'harem, nel mondo arabo.
L'harem, il cui significato letterale è: "luogo sacro e proibito", era la parte della casa destinata alle donne.
L'usanza di relegare le donne in un appartamento della casa è antichissima ed in alcuni Paesi viene ancora oggi praticata. Un’usanza che trasformava la donna in un oggetto e la defraudava della dignità e della individualità di persona.
Prigioniere senza sbarre, le donne dell'harem, di natura pigre ed indolenti, conducevano un'esistenza inoperosa; al contrario della donna beduina, ad esempio, sulle cui spalle gravava il peso della famiglia, ed al contrario anche della popolana cittadina, attiva e lavoratrice.
Analfabeta, ignorante, fuori del tempo e del mondo, la donna dell'harem viveva esclusivamente per il piacere dell'uomo, perciò, ogni azione, ogni pensiero, ogni cura, erano rivolte a tale, unico scopo.
L'uomo, dal canto suo, rispondeva a questa totale dedizione, appagando ogni suo capriccio, naturalmente secondo i propri mezzi; spesso, infatti, queste donne disponevano di appartamenti propri e di proprie schiave.
Arrivavano numerose, negli harem, vendute dalle famiglie o frutto di quella dolorosa piaga che l'Europa conosceva come la: "Tratta delle bianche".
Tra questo elevato numero di donne, il Sultano sceglieva le sue Kadin, le concubine. Generalmente quattro.
Rispetto alle altre donne, queste godevano di particolare considerazione, ma dovevano obbedienza alla padrona, cioè alla moglie: la Valde Sultan, ossia la Sultana-Madre, donna libera, cui tutti, lo stesso marito, dovevano rispetto.
Il problema più assillante di un harem era quello di vincere la noia di interminabili giornate oziose. Non potendo uscire di casa, se non in rare occasioni, quando ciò accadeva, queste donne finivano sempre per vagabondare nei bazar, mettendo a dura prova la pazienza dei venditori.
Entrare ed uscire dai negozi, tra estenuanti contrattazioni e senza comprare niente, era il loro divertimento preferito.
Un altro passatempo era quello di recarsi ai bagni pubblici.
In quelle scorribande, però, non erano mai sole; c'era sempre qualcuno a sorvegliarle: una donna anziana oppure un eunuco, un uomo, cioè, privato della propria virilità a tale, unico scopo. L'uso di affidare le donne ad un eunuco era passata al mondo musulmano dalla civiltà bizantina.
Quando mancavano le occasioni per uscire di casa, queste impareggiabili, oziose creature, organizzavano feste e visite di cortesia all'interno del palazzo: nell'arte di intrattenersi a vicenda, quelle oziose e lussuriose donne, erano vere maestre.
Su splendidi terrazzi affacciati sul mare, potevano passeggiare, danzare, bere the, mangiare focaccine di farina di datteri e sfoggiare gioielli: orecchini, collane e bracciali di preziosissima e finissima filigrana, nella cui arte gli orafi arabi sono sempre stati grandi maestri.
I divertimenti erano quasi sempre sciocchi ed infantili; andavano dalla “moscacieca” al “nascondino”, dal “gioco dei perché” a “gioco della verità”.
La loro preferenza, però, andava agli scherzi perfidi e pesanti a spese di ancelle ed eunuchi. Soprattutto questi ultimi, costretti a subire crudeli commedie per lo spasso di un pubblico sciocco, insensibile ed annoiato.
Donne ed eunuchi si odiavano profondamente: le prime, perchè scaricavano su quelli i rancori verso il maschio, i secondi perchè non potevano sottrarsi alle angherie di quelle… entrambi vittime di un malcostume che ha preteso molta legna da ardere, prima di diventare cenere…
L'harem, il cui significato letterale è: "luogo sacro e proibito", era la parte della casa destinata alle donne.
L'usanza di relegare le donne in un appartamento della casa è antichissima ed in alcuni Paesi viene ancora oggi praticata. Un’usanza che trasformava la donna in un oggetto e la defraudava della dignità e della individualità di persona.
Prigioniere senza sbarre, le donne dell'harem, di natura pigre ed indolenti, conducevano un'esistenza inoperosa; al contrario della donna beduina, ad esempio, sulle cui spalle gravava il peso della famiglia, ed al contrario anche della popolana cittadina, attiva e lavoratrice.
Analfabeta, ignorante, fuori del tempo e del mondo, la donna dell'harem viveva esclusivamente per il piacere dell'uomo, perciò, ogni azione, ogni pensiero, ogni cura, erano rivolte a tale, unico scopo.
L'uomo, dal canto suo, rispondeva a questa totale dedizione, appagando ogni suo capriccio, naturalmente secondo i propri mezzi; spesso, infatti, queste donne disponevano di appartamenti propri e di proprie schiave.
Arrivavano numerose, negli harem, vendute dalle famiglie o frutto di quella dolorosa piaga che l'Europa conosceva come la: "Tratta delle bianche".
Tra questo elevato numero di donne, il Sultano sceglieva le sue Kadin, le concubine. Generalmente quattro.
Rispetto alle altre donne, queste godevano di particolare considerazione, ma dovevano obbedienza alla padrona, cioè alla moglie: la Valde Sultan, ossia la Sultana-Madre, donna libera, cui tutti, lo stesso marito, dovevano rispetto.
Il problema più assillante di un harem era quello di vincere la noia di interminabili giornate oziose. Non potendo uscire di casa, se non in rare occasioni, quando ciò accadeva, queste donne finivano sempre per vagabondare nei bazar, mettendo a dura prova la pazienza dei venditori.
Entrare ed uscire dai negozi, tra estenuanti contrattazioni e senza comprare niente, era il loro divertimento preferito.
Un altro passatempo era quello di recarsi ai bagni pubblici.
In quelle scorribande, però, non erano mai sole; c'era sempre qualcuno a sorvegliarle: una donna anziana oppure un eunuco, un uomo, cioè, privato della propria virilità a tale, unico scopo. L'uso di affidare le donne ad un eunuco era passata al mondo musulmano dalla civiltà bizantina.
Quando mancavano le occasioni per uscire di casa, queste impareggiabili, oziose creature, organizzavano feste e visite di cortesia all'interno del palazzo: nell'arte di intrattenersi a vicenda, quelle oziose e lussuriose donne, erano vere maestre.
Su splendidi terrazzi affacciati sul mare, potevano passeggiare, danzare, bere the, mangiare focaccine di farina di datteri e sfoggiare gioielli: orecchini, collane e bracciali di preziosissima e finissima filigrana, nella cui arte gli orafi arabi sono sempre stati grandi maestri.
I divertimenti erano quasi sempre sciocchi ed infantili; andavano dalla “moscacieca” al “nascondino”, dal “gioco dei perché” a “gioco della verità”.
La loro preferenza, però, andava agli scherzi perfidi e pesanti a spese di ancelle ed eunuchi. Soprattutto questi ultimi, costretti a subire crudeli commedie per lo spasso di un pubblico sciocco, insensibile ed annoiato.
Donne ed eunuchi si odiavano profondamente: le prime, perchè scaricavano su quelli i rancori verso il maschio, i secondi perchè non potevano sottrarsi alle angherie di quelle… entrambi vittime di un malcostume che ha preteso molta legna da ardere, prima di diventare cenere…
L'Harem nella Cultura Antica
La segregazione della donna in una parte della casa, quasi sempre ai piani superiori, testimonia la scarsa stima dell'uomo nei suoi confronti.
Nella società sumerica, in verità, la donna godeva di notevole considerazione ed era la "Signora della Casa". Ciò, nondimeno, non le evitò la condizione di donna condivisa. Le venne riparmiata, è vero, la segregazione, ma all'uomo era riconosciuto il diritto di avere altre spose e di scegliersi concubine tra le schiave ed alla donna, solo di dovere di accettarlo.
In una tomba regale furono trovati i corpi allineati di dieci Regine più un numero imprecisato di "Donne di corte" con i loro fastosi gioielli e gli abiti da cermonia.
Nella tomba di re Abargi, inoltre, furono trovate le spoglie (ad un livello soprastante di sepoltura) della Regina Shubad e di un'altra Regina di cui si ignora il nome, insieme a quelle di numerose concubine ed ancelle.
Il Rituale di sepoltura (vedi il post: "Il Pozzo della Morte") prevedeva, infatti, anche il sacrificio umano. La condizione della donna mesopotamica non migliorò con il tempo. Al contrario, peggiorò nel periodo semitico che seguì.
La donna si vide fisicamente segregata nel gineceo, la parte della casa a lei riservata. Non da sola, ma assieme ad altre donne: mogli e concubine.
Giuridicamente, il matrimonio era un contratto, spesso stipulato da altri, che contemplava la procreazione e l'educazione dei figli e la sterilità della donna poteva essere causa di ripudio. Una mancanza che si poteva aggirare e superare con una "sostituta" che mettesse al mondo figli considerati della prima moglie.
Un aspetto, questo, dell' "amore libero" riconosciuto ed apprezzsto. Come riconosciute ed apprezate erano anche le prestazioni sessuali delle "Sacerdotesse del Tempio" che servivano la Dea dell'Amore.
Non solo Babilonia, ma anche l'Antica Grecia, la Bibbia e Roma antica ritenevano utile e necessaria l'esistenza di tale tipo di prestazione, che creerà la figura della cortigiana e poi della prostituta.
Nella cultura egizia sappiamo bene quanto importante fosse l'apporto della famiglia... soprattutto di una famiglia assai numerosa ed allargata, per il Faraone. (vedere post: La Famiglia: sostegno indispensabile del Faraone" nella Pagina Antico Egitto)
Così come nella cultura biblica. Dell'epoca dei Patriarchi prima e dei Sovrani dopo.
Anche l'Antica Grecia e l'Europa dei Balcani rispecchiavono perfettamente la dipendenza della donna dal marito proprio attraverso la relegazione in una zona della casa a lei riservata e separata da quella destinata agli uomini.
Ogni casa di ceto elevato aveva il suo gineceo.
La donna libera non ricopriva ruoli civili o sociali ed era destinata al matrimonio ed alla maternità; non usciva mai di casa, se non in occasioni rarissime, come matrimoni, nascite o cerimonie religiose.
Se il sesso con la moglie era inteso come mezzo di procreazione e senza troppi coinvolgimenti erotici, per avere un'intesa sessuale, l'uomo si vedeva riconosciuto il diritto di avere una o più concubine. Una terza figura femminile, infine, dava lustro al gineceo anche se non ne era strettamente vincolata: la etèra, una donna colta e di fine intelletto, che sapesse intrattenere con dibattiti e conversaziobi filosofiche e culturali e che accompagnasse il padrone in quei posti dove moglie e concubine non potevano mettere piede.
Insolita e particolare era anche l'usanza, presso antiche culture del Nord Europa, della "Famiglia comune" o "Letto comune", che prevedeva la condivisione della donna tra fratelli.
Ne parlò anche Cesare nel suo "De Bello Gallico" a proposito di alcune tribù dell'Irlanda: con il termine "gwely", si indicava, infatti, sia il letto che la famiglia.
Tacito parla di Clothru, moglie dei suoi tre fratelli e madre di Lugard, figlio di uno dei tre, che la donna sposerà e da cui avrà un figlio che diventerà Re.
Una storia d'amore incestuoso, avverte lo storico romano, da non prendere alla lettera.
L'harem nella cultura cinese
L'harem nel mondo cinese
L'harem nel mondo cinese
Unico e inaccessibile, l'harem imperiale cinese era una vera "città proibita", tale e quale era stato battezzato: una città di donne, eunuchi e guardie. Costituiva una vera piramide con al vertice la Regina. C'erano, poi, tre Spose Primarie, più altre nove Spose Secondarie a cui andavano aggiunte ulteriori ventisette Spose di Terzo Grado. Seguivano ottantuno Concubine ufficiali ed un numero imprecisato di concubine non ufficiali.
L'alcova imperiale era, dunque, più che mai attiva e recava l'impronta di un numero impressionante di corpi femminili.
Le più assidue nel frequentarla, per quanto strano possa apparire, erano quelle che occupavano i gradini più bassi di quella particolare ed inconsueta piramide umana: le Concubine, più che le Spose e le Spose, più che la Regina, la quale viveva appartata e solo di rado e non più di una volta l'anno frequentava il talamo nuziale. Per l'intera notte, se Spose Primarie, per il tempo della "prestazione", per tutte le altre.
E' chiaro che l'organizzazione di uno "Stato" composto da un così gran numero di donne richiedesse ordine e regole ferree, soprattutto nei ranghi superiori e che l'osservanza di tali regole era fondamentale per rendere accettabile la convivenza.
Era tra le concubine, un esercito di donne annoiate, isteriche e tristi, che si mettevano in atto le strategie più raffinate, sottili e sleali, allo scopo di raggiungere quel talamo ed occuparlo il più a lungo possibile: l'imperatore era assai generoso con chi riusciva a risvegliarne i turbamenti erotici e la posizione di Favorita significava onori, potere e ricchezza.
Concubine, oggi, in Cina?
La poligamia non esiste più. Non di diritto, almeno! Esiste, però, una poligamia di fatto, condannata, ma tollerata: uno dei tanti contrasti di questo splendido ed affascinante Paese dalla millenaria cultura.
Nelle città più ricche ed industrializzate del Paese, si è posto in atto un costume socio-culturale assai particolare. Sono molti i maschi abbienti (molto abbienti) che si dividono fra due donne: la moglie ufficiale e quella non ufficiale. Esistono quartieri di lusso che ospitano la concubina-amante con figli e qualche volta, la moglie non ufficiale non è una soltanto... se questo non è harem!
L'harem nel mondo cinese
Unico e inaccessibile, l'harem imperiale cinese era una vera "città proibita", tale e quale era stato battezzato: una città di donne, eunuchi e guardie. Costituiva una vera piramide con al vertice la Regina. C'erano, poi, tre Spose Primarie, più altre nove Spose Secondarie a cui andavano aggiunte ulteriori ventisette Spose di Terzo Grado. Seguivano ottantuno Concubine ufficiali ed un numero imprecisato di concubine non ufficiali.
L'alcova imperiale era, dunque, più che mai attiva e recava l'impronta di un numero impressionante di corpi femminili.
Le più assidue nel frequentarla, per quanto strano possa apparire, erano quelle che occupavano i gradini più bassi di quella particolare ed inconsueta piramide umana: le Concubine, più che le Spose e le Spose, più che la Regina, la quale viveva appartata e solo di rado e non più di una volta l'anno frequentava il talamo nuziale. Per l'intera notte, se Spose Primarie, per il tempo della "prestazione", per tutte le altre.
E' chiaro che l'organizzazione di uno "Stato" composto da un così gran numero di donne richiedesse ordine e regole ferree, soprattutto nei ranghi superiori e che l'osservanza di tali regole era fondamentale per rendere accettabile la convivenza.
Era tra le concubine, un esercito di donne annoiate, isteriche e tristi, che si mettevano in atto le strategie più raffinate, sottili e sleali, allo scopo di raggiungere quel talamo ed occuparlo il più a lungo possibile: l'imperatore era assai generoso con chi riusciva a risvegliarne i turbamenti erotici e la posizione di Favorita significava onori, potere e ricchezza.
Concubine, oggi, in Cina?
La poligamia non esiste più. Non di diritto, almeno! Esiste, però, una poligamia di fatto, condannata, ma tollerata: uno dei tanti contrasti di questo splendido ed affascinante Paese dalla millenaria cultura.
Nelle città più ricche ed industrializzate del Paese, si è posto in atto un costume socio-culturale assai particolare. Sono molti i maschi abbienti (molto abbienti) che si dividono fra due donne: la moglie ufficiale e quella non ufficiale. Esistono quartieri di lusso che ospitano la concubina-amante con figli e qualche volta, la moglie non ufficiale non è una soltanto... se questo non è harem!
D... come DONNA
Donne violate
La cronaca ci ha abituati ad episodi di violenza contro le donne..." Femminicidio", chiamano tale triste fenomeno. Donne che perdono la vita per mano di uomini violenti e possessivi, per la maggior parte dei casi nell'ambito familiare.
Si tratta di un fenomeno universale che coinvolge ogni strato sociale e culturale, senza esclusione alcuna.
La cronaca, però, sorvola su un vergognoso ed altrettanto triste fenomeno oppure non ne parla a sufficienza, forse perché di casa nostra non é: parlo del Gendercidio.
Che cos'é il Gendercicio?
Potremmo definirlo l'aspetto più drammatico della discriminazione e selezione dei sessi: la forma più subdola di violenza sulla donna. Si tratta, in sostanza, dell'aborto selettivo di feti o di soppressione di neonati di sesso femminile: bambine che non vedono la luce o che vengono uccise appena nate.
Le armi usate? Aborto o veleno.
Dove, il triste fenomeno è più diffuso? Là dove c'è oppure c'era fino a poco tempo fa, povertà e sottosviluppo.
In realtà, si tratta solo di un alibi, quello della povertà, poiché in quei Paesi la crescita economica è sotto gli occhi di tutti, come sotto gli occhi di tutti é l'assoluta indifferenza verso questo sterminio di particolare proporzioni.
In alcuni Paesi (non occorre far nomi, essendo il fenomeno sotto gli occhi di tutti), l a donna è ancor oggi è considerata un peso, mentre in altri pare che la tendenza sia, per così dire, quella di invertire la rotta.
Molti i Paesi in cui è stato proibito l'aborto selettivo (fino a ieri ampiamente praticato) ed in si sono disposti incentivi a favore dei figli di sesso femminile, ma ciò non ha ancora prodotto significativi mutamenti e la ragione è da ricercarsi, forse, in un modello di società sostanzialmente maschilista.
Si tratta di un fenomeno universale che coinvolge ogni strato sociale e culturale, senza esclusione alcuna.
La cronaca, però, sorvola su un vergognoso ed altrettanto triste fenomeno oppure non ne parla a sufficienza, forse perché di casa nostra non é: parlo del Gendercidio.
Che cos'é il Gendercicio?
Potremmo definirlo l'aspetto più drammatico della discriminazione e selezione dei sessi: la forma più subdola di violenza sulla donna. Si tratta, in sostanza, dell'aborto selettivo di feti o di soppressione di neonati di sesso femminile: bambine che non vedono la luce o che vengono uccise appena nate.
Le armi usate? Aborto o veleno.
Dove, il triste fenomeno è più diffuso? Là dove c'è oppure c'era fino a poco tempo fa, povertà e sottosviluppo.
In realtà, si tratta solo di un alibi, quello della povertà, poiché in quei Paesi la crescita economica è sotto gli occhi di tutti, come sotto gli occhi di tutti é l'assoluta indifferenza verso questo sterminio di particolare proporzioni.
In alcuni Paesi (non occorre far nomi, essendo il fenomeno sotto gli occhi di tutti), l a donna è ancor oggi è considerata un peso, mentre in altri pare che la tendenza sia, per così dire, quella di invertire la rotta.
Molti i Paesi in cui è stato proibito l'aborto selettivo (fino a ieri ampiamente praticato) ed in si sono disposti incentivi a favore dei figli di sesso femminile, ma ciò non ha ancora prodotto significativi mutamenti e la ragione è da ricercarsi, forse, in un modello di società sostanzialmente maschilista.
Una storia di stupro ed eroismo
ONORATA RODANI
Anno 1423. Un’altra donna muore in battaglia dopo un aspro combattimento; per tre anni aveva combattuto valorosamente nelle file dell’esercito di Francesco Sforza, impegnato contro Venezia.
Le sue ultime parole furono:
“Onorata vissi e onorata muoio.”
Onorata Rodano era un’apprezzata pittrice e il conte Cabrino, Signore di Castelleone, nei pressi di Cremona, le affidò l’incarico di affrescare alcune stanze del suo castello.
Oltre che brava, Onorata era anche molto bella e schiva.
La sua avvenenza accese le brame di un amico del conte. Invano questi continuava ad invitarla ai banchetti ed ai sontuosi festini di corte. Assorbita dal suo lavoro, la ragazza li rifiutava sistematicamente.
Contrariato ed offeso, un giorno, l’innamorato respinto la raggiunse sull’impalcatura dove lei lavorava e tentò di usarle violenza.
Nel tentativo di difendersi, Onorata lo ferì mortalmente con la lama che usava per raschiare la parete. Per evitare il castigo, la ragazza fuggì e, travestita da soldato, entrò nelle truppe dello Sforza e combatté per oltre tre anni. Fino allo scontro in cui fu colpita a morte.
I compagni si chinarono per soccorrere il valoroso cavaliere morente e solamente allora si accorsero di avere di fronte una giovane donna.
ONORATA RODANI
Anno 1423. Un’altra donna muore in battaglia dopo un aspro combattimento; per tre anni aveva combattuto valorosamente nelle file dell’esercito di Francesco Sforza, impegnato contro Venezia.
Le sue ultime parole furono:
“Onorata vissi e onorata muoio.”
Onorata Rodano era un’apprezzata pittrice e il conte Cabrino, Signore di Castelleone, nei pressi di Cremona, le affidò l’incarico di affrescare alcune stanze del suo castello.
Oltre che brava, Onorata era anche molto bella e schiva.
La sua avvenenza accese le brame di un amico del conte. Invano questi continuava ad invitarla ai banchetti ed ai sontuosi festini di corte. Assorbita dal suo lavoro, la ragazza li rifiutava sistematicamente.
Contrariato ed offeso, un giorno, l’innamorato respinto la raggiunse sull’impalcatura dove lei lavorava e tentò di usarle violenza.
Nel tentativo di difendersi, Onorata lo ferì mortalmente con la lama che usava per raschiare la parete. Per evitare il castigo, la ragazza fuggì e, travestita da soldato, entrò nelle truppe dello Sforza e combatté per oltre tre anni. Fino allo scontro in cui fu colpita a morte.
I compagni si chinarono per soccorrere il valoroso cavaliere morente e solamente allora si accorsero di avere di fronte una giovane donna.
Lo stupro che causò la fine della Monarchia romana
LO STUPRO CHE CAUSO' LA FINE DELLA MONARCHIA ROMANA Naturalmente, quell’atto di violenza su una donna fu solo la scintilla scatenante di un fuoco che bruciava sotto la cenere.
Come andarono i fatti e chi furono i protagonisti di quella tragedia?
Regnava Tarquinio il Superbo, uomo assai superstizioso, oltre che assai superbo.
Un inquietante prodigio aveva sconvolto la superstiziosa corte etrusca: un enorme serpente era comparso nella Reggia provocando scompiglio e terrore.
Il Re consultò maghi ed indovini, ma, alla fine, decise di inviare a Delfi, (dove sorgeva il Santuario di Apollo) per un responso, due dei suoi figli: Tito e Arrunte, accompagnati dal nobile romano Lucio Giunio, detto Bruto, cioè: “stolto”.
Questi, che stolto non era, ma solo assetato di rancore verso la famiglia reale, responsabile della morte del fratello, li accompagnò di buon grado, ma dimostrò, sulla via del ritorno, di che pasta era fatto.
L’oracolo, infatti, s’era espresso così:
“… il potere su Roma, spetterà a colui che per primo bacerà la Madre.”
Fu così che, giunti in patria, mentre i due fratelli discutevano su chi di loro avesse più diritto a quel privilegio, Giunio il “Bruto” finse d’inciampare e cadendo, baciò il suolo, cioè la Madre-Terra, facendo fede alle parole dell’oracolo.
Qualche giorno più tardi, nel corso di un banchetto, un certo Lucio Tarquinio Collatino, parente del Re, si vantava dell’onestà di Lucrezia, la bellissima moglie, ed invitava nella sua casa Sesto Tarquinio, il primogenito del Sovrano.
Questi accettò l’invito e provò a sedurre la bella Lucrezia. La donna, però, lo respinse e quegli, in preda alla collera, la stuprò.
Prima di togliersi la vita, la virtuosa Lucrezia informò dell’accaduto marito, amici e parenti e chiese loro di vendicarla.
Fu proprio Giunio Bruto, animato dal suo odio verso la famiglia Tarquinia, ad occuparsi della faccenda. Cavalcando l’onda della grande emozione suscitata da quell’episodio, egli spinse la popolazione alla rivolta.
Al cospetto delle spoglie della virtuosa patrizia, egli tenne un vibrante discorso funebre che infiammò il popolo: elogiò la virtù di Lucrezia e denunciò i delitti della famiglia Tarquinia.
Fu la fine della Monarchia: Tarquinio il Superbo e la sua famiglia furono cacciati via a furor di popolo e in sua vece fu invocata la Repubblica. Proprio Giunio e Collatino, furono i primi due Consoli eletti.
Come andarono i fatti e chi furono i protagonisti di quella tragedia?
Regnava Tarquinio il Superbo, uomo assai superstizioso, oltre che assai superbo.
Un inquietante prodigio aveva sconvolto la superstiziosa corte etrusca: un enorme serpente era comparso nella Reggia provocando scompiglio e terrore.
Il Re consultò maghi ed indovini, ma, alla fine, decise di inviare a Delfi, (dove sorgeva il Santuario di Apollo) per un responso, due dei suoi figli: Tito e Arrunte, accompagnati dal nobile romano Lucio Giunio, detto Bruto, cioè: “stolto”.
Questi, che stolto non era, ma solo assetato di rancore verso la famiglia reale, responsabile della morte del fratello, li accompagnò di buon grado, ma dimostrò, sulla via del ritorno, di che pasta era fatto.
L’oracolo, infatti, s’era espresso così:
“… il potere su Roma, spetterà a colui che per primo bacerà la Madre.”
Fu così che, giunti in patria, mentre i due fratelli discutevano su chi di loro avesse più diritto a quel privilegio, Giunio il “Bruto” finse d’inciampare e cadendo, baciò il suolo, cioè la Madre-Terra, facendo fede alle parole dell’oracolo.
Qualche giorno più tardi, nel corso di un banchetto, un certo Lucio Tarquinio Collatino, parente del Re, si vantava dell’onestà di Lucrezia, la bellissima moglie, ed invitava nella sua casa Sesto Tarquinio, il primogenito del Sovrano.
Questi accettò l’invito e provò a sedurre la bella Lucrezia. La donna, però, lo respinse e quegli, in preda alla collera, la stuprò.
Prima di togliersi la vita, la virtuosa Lucrezia informò dell’accaduto marito, amici e parenti e chiese loro di vendicarla.
Fu proprio Giunio Bruto, animato dal suo odio verso la famiglia Tarquinia, ad occuparsi della faccenda. Cavalcando l’onda della grande emozione suscitata da quell’episodio, egli spinse la popolazione alla rivolta.
Al cospetto delle spoglie della virtuosa patrizia, egli tenne un vibrante discorso funebre che infiammò il popolo: elogiò la virtù di Lucrezia e denunciò i delitti della famiglia Tarquinia.
Fu la fine della Monarchia: Tarquinio il Superbo e la sua famiglia furono cacciati via a furor di popolo e in sua vece fu invocata la Repubblica. Proprio Giunio e Collatino, furono i primi due Consoli eletti.
Origine del velo nella cultura islamica
L'uso del velo è antichissimo, comune a tutte le culture; lo portavano perfino le romane d'epoca imperiale, appoggiato alle dorate ed elaborate parrucche ed era interdetto, presso gli antichi babilonesi, alle cortigiane.
Era presente, perciò anche anche nella società araba-preislamica, profondamente maschilista, dove era addirittura una necessità, poiché sollevare lo sguardo su un uomo era considerato un attentato alla sua "superiorità di maschio".
Divenne un precetto islamico solo in seguito, quando Maometto provò a migliorare le condizioni della donna. Contro i suoi progetti si scagliarono i suoi avversari e lo fecero colpendo proprio le donne della sua famiglia.
Le mogli e le figlie del Profeta erano costantemente minacciate per strada e subirono anche tentativi di stupro per cui furono costrette a restarsene in casa.
L'alternativa era il velo, che divenne da quel momento la prima forma di segregazione per le donne islamiche cui, per un brevissim istante, era stato concesso di respirare aria di libertà.
Era presente, perciò anche anche nella società araba-preislamica, profondamente maschilista, dove era addirittura una necessità, poiché sollevare lo sguardo su un uomo era considerato un attentato alla sua "superiorità di maschio".
Divenne un precetto islamico solo in seguito, quando Maometto provò a migliorare le condizioni della donna. Contro i suoi progetti si scagliarono i suoi avversari e lo fecero colpendo proprio le donne della sua famiglia.
Le mogli e le figlie del Profeta erano costantemente minacciate per strada e subirono anche tentativi di stupro per cui furono costrette a restarsene in casa.
L'alternativa era il velo, che divenne da quel momento la prima forma di segregazione per le donne islamiche cui, per un brevissim istante, era stato concesso di respirare aria di libertà.
L'abbigliamento femminile nella Stori
LA DONNA PREISTORICA
CONDIZIONE della DONNA nella STORIA
La donna moderna
Il seme di un Movimento per l’emancipazione femminile fu gettato con la Rivoluzione francese e la ghigliottina: due attiviste ci lasciarono letteralmente la testa, sotto quella ghigliottina!
La battaglia, però, è continuata.
Anzi, le battaglie.
Ma la guerra è stata vinta?
Per una parte dell’universo femminile, parlerei di abbondante armistizio, sia pur con molti compromessi e forzature varie. (sul lavoro, in famiglia, ecc..)
E per l’altra parte? Una buona parte, direi!
Per quella parte dell’universo femminile posso affermare senza timori di smentite che la risposta è assolutamente no e le ragioni sono varie:
- violenza fisica al corpo femminile attraverso infibulazioni e atrocità simili.
- costrizioni ed imposizioni quali matrimoni combinati, padri-padrone, ecc.
- annientamento della personalità attraverso un abbigliamento degradante (non mi riferisco al velo, ma a quello scafandro chiamato burca o simile)
Un altro tipo di violenza… di casa nostra, direi, è la piaga dello stupro (il quale fino a qualche anno fa non era neppure considerato reato) e la violenza domestica, spesso sommersa e portata con vergogna.
Esiste, poi, un altro tipo di violenza: quella pubblicitaria. Quella, intendo, che per vendere un dentifricio o un tubetto di silicone, ricorre all’immagine di un nudo femminile… complice, in questo caso, la moralità del soggetto che a ciò si presta.
Per chi guarda e subisce tale pubblicità, però, resta pur sempre un atto di violenza… e non lo dico per facili moralismi o falsi pudori, ma solo per quel diritto al rispetto che ogni donna dovrebbe pretendere e quel personale stile e buongusto che differenzia una donna da qualcosa d’altro.
La battaglia, però, è continuata.
Anzi, le battaglie.
Ma la guerra è stata vinta?
Per una parte dell’universo femminile, parlerei di abbondante armistizio, sia pur con molti compromessi e forzature varie. (sul lavoro, in famiglia, ecc..)
E per l’altra parte? Una buona parte, direi!
Per quella parte dell’universo femminile posso affermare senza timori di smentite che la risposta è assolutamente no e le ragioni sono varie:
- violenza fisica al corpo femminile attraverso infibulazioni e atrocità simili.
- costrizioni ed imposizioni quali matrimoni combinati, padri-padrone, ecc.
- annientamento della personalità attraverso un abbigliamento degradante (non mi riferisco al velo, ma a quello scafandro chiamato burca o simile)
Un altro tipo di violenza… di casa nostra, direi, è la piaga dello stupro (il quale fino a qualche anno fa non era neppure considerato reato) e la violenza domestica, spesso sommersa e portata con vergogna.
Esiste, poi, un altro tipo di violenza: quella pubblicitaria. Quella, intendo, che per vendere un dentifricio o un tubetto di silicone, ricorre all’immagine di un nudo femminile… complice, in questo caso, la moralità del soggetto che a ciò si presta.
Per chi guarda e subisce tale pubblicità, però, resta pur sempre un atto di violenza… e non lo dico per facili moralismi o falsi pudori, ma solo per quel diritto al rispetto che ogni donna dovrebbe pretendere e quel personale stile e buongusto che differenzia una donna da qualcosa d’altro.
La donna nella cultura musulmana
Il primo a porre la questione femminile e l'emancipzione della donna nella società fu l'intellettuale egiziano Oasim Amin.
"La Legge islamica ha preceduto tutte le altre Legislazioni, proclamando l'uguaglianza della donna e dell'uomo." scrisse
Ed aveva ragione. Sebbene solo teoricamente, poiché la condizione femminile nel mondo non è mutata poi così tanto da quando Oasim Amin fece quest'affermazione.
Immutata è rimasta anche la condizione della donna musulmana; ieri come oggi, che pure occupa posti di rilievo nella società. Ieri come oggi, infatti, è assoggettata all'autorità di padre o marito e ieri come oggi, ritenuta fonte di tentazione per il maschio, è costretta a velarsi e nascondersi. E, sempre ancora oggi, la troviamo sottoposta a pratiche aberranti come l'infibulazione... e non giustifica il fatto che tale pratica sia antica e pre-islamica... semmai ne aumenta la colpa, poiché tollerare è lo stesso che praticare.
In verità, la condizione della donna nella società araba pre-islamica, considerata una disgrazia per la famiglia fin dalla nascita, era assai dura. Oppressa, disprezzata e privata di ogni più elementare diritto, era considerata alla stregua di un oggetto o di una proprietà che si poteva perfino ereditare: dal figlio maggiore della prima moglie, alla morte del padre.
L'Islam le riconobbe diritti che non aveva mai goduto prima, ma le impose anche doveri.
Diritti e doveri. Il Corano obbliga e tutela.
Il Corano, però, si presta a varie interpretazioni.
Esiste la Sharia, la Legge Islamica, ma esiste anche la Ijtihad, la nuova interpretazione della Legge Coranica e non sempre la seconda è in accordo con quella tradizionale.
"Le donne sono uguali all'uomo di fronte a Dio." recita il Corano,
ma subito precisa:
"Le donne hanno diritti equivalenti ai doveri, ma gli uomini sono superiori. Allah è potente e giusto!" (Sura 2 - verso 228)
o addirittura proclama:
"Gli uomini sono preposti alle donne a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre e perché spendono i loro beni... Le virtuose sono le devote che proteggono nel segreto quello che Allah ha preservato. Ammonite quelle di cui temete l'insubordinazione. Lasciatele sole nei loro letti. Battetele. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di loro. Allah Altissimo è grande." ( Sura IV - versetto 34)
Il Corano, dunque, riconosce molti diritti (ma non tutti) alla donna e primo fra tutti, le riconosce il diritto alla nascita: un diritto per nulla scontato, se si considera il dilagare in tutto il mondo della piaga del Gendercidio o selezione genetica.
Bisogna anche riconoscere che se in alcuni Paesi arabi le donne non godono dei diritti loro accordati dal Corano, la causa va ricercata nella interpretazione che ne danno uomini appartenenti ad una società per vocazione profondamente maschilista.
Sono nati così, imposizioni e divieti.
Come quello del velo, diventato nel tempo sempre più ampio, sempre più largo, sempre più avvolgente fino ad inghiottire la figura femminile. Nessun versetto del Corano, in verità, ne prescrive l'uso, ereditato dalla cultura pre-islamica. E nessun versetto coranico ingiunge alla donna di abbassare lo sguardo perché offenderebbe la "superiorità del maschio".
Né è il Corano a imporre l'istituto della poligamia, secondo cui l'uomo può avere fino a quattro mogli o quello del facile ripudio, che permette all'uomo di liberarsi della moglie anche senza giusta causa. Si tratta di antiche consuetudini cui un certo tipo di uomo è rimasto tenacemente attaccato.
Grazie al movimento per l'emancipazione femminile "Periodo del Risveglio", che già nel 1923 portò la Turchia all'abolizione della Sharia ed alla laicizzazione dello Stato, alcune cose oggi sono cambiate... cambiamenti che hanno contribuito alla nascita di progetti sociali e culturali su cui ancora oggi si scontrano Progressisti e Fondamentalisti.
Oggi, la poligamia, pur riconosciuta, è praticata solo in bassissima percentuale e la maggior parte dei matrimoni sono monogami. In materia di diritto familiare, alla donna divorziata è finalmente riconosciuto il diritto di tenere il figlio con sé fino a nuove nozze o di non contrarre matrimonio contro la propria volontà; in alcuni Paesi poligamia e ripudio sono stati aboliti.
Alla donna araba oggi, è riconosciuto il diritto all'istruzione ed al lavoro come in ogni altra società.
Quando si parla di donna araba non si parla di una sola realtà, ma di un mondo variegato con realtà diverse, che non devono indulgere l'osservatore esterno a facili pregiudizi. Come nella società occidentale un'italiana è diversa da una svedese, nella società araba una saudita lo è da una tunisina.
E' paradossale che a diffondere lo stereotipo della donna araba sottomessa e completmente assoggettata all'uomo siano solo fatti di cronaca e si tralascino invece le conquiste, numerose, delle donne arabe nell'ambito della società.
Uscita dal limbo di ignoranza in cui è vissuta per secoli, la donna araba oggi conosce, al pari della donna occidentale, molte nuove realtà. Come la donna occidentale e soprattutto negli ultimi decenni, ha conseguito successi e conquistato diritti.
Uno di queste conquiste è il diritto a coprirsi il capo, se desidera farlo e se non vi é costretta da qualcuno o da qualche precetto.
"La Legge islamica ha preceduto tutte le altre Legislazioni, proclamando l'uguaglianza della donna e dell'uomo." scrisse
Ed aveva ragione. Sebbene solo teoricamente, poiché la condizione femminile nel mondo non è mutata poi così tanto da quando Oasim Amin fece quest'affermazione.
Immutata è rimasta anche la condizione della donna musulmana; ieri come oggi, che pure occupa posti di rilievo nella società. Ieri come oggi, infatti, è assoggettata all'autorità di padre o marito e ieri come oggi, ritenuta fonte di tentazione per il maschio, è costretta a velarsi e nascondersi. E, sempre ancora oggi, la troviamo sottoposta a pratiche aberranti come l'infibulazione... e non giustifica il fatto che tale pratica sia antica e pre-islamica... semmai ne aumenta la colpa, poiché tollerare è lo stesso che praticare.
In verità, la condizione della donna nella società araba pre-islamica, considerata una disgrazia per la famiglia fin dalla nascita, era assai dura. Oppressa, disprezzata e privata di ogni più elementare diritto, era considerata alla stregua di un oggetto o di una proprietà che si poteva perfino ereditare: dal figlio maggiore della prima moglie, alla morte del padre.
L'Islam le riconobbe diritti che non aveva mai goduto prima, ma le impose anche doveri.
Diritti e doveri. Il Corano obbliga e tutela.
Il Corano, però, si presta a varie interpretazioni.
Esiste la Sharia, la Legge Islamica, ma esiste anche la Ijtihad, la nuova interpretazione della Legge Coranica e non sempre la seconda è in accordo con quella tradizionale.
"Le donne sono uguali all'uomo di fronte a Dio." recita il Corano,
ma subito precisa:
"Le donne hanno diritti equivalenti ai doveri, ma gli uomini sono superiori. Allah è potente e giusto!" (Sura 2 - verso 228)
o addirittura proclama:
"Gli uomini sono preposti alle donne a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre e perché spendono i loro beni... Le virtuose sono le devote che proteggono nel segreto quello che Allah ha preservato. Ammonite quelle di cui temete l'insubordinazione. Lasciatele sole nei loro letti. Battetele. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di loro. Allah Altissimo è grande." ( Sura IV - versetto 34)
Il Corano, dunque, riconosce molti diritti (ma non tutti) alla donna e primo fra tutti, le riconosce il diritto alla nascita: un diritto per nulla scontato, se si considera il dilagare in tutto il mondo della piaga del Gendercidio o selezione genetica.
Bisogna anche riconoscere che se in alcuni Paesi arabi le donne non godono dei diritti loro accordati dal Corano, la causa va ricercata nella interpretazione che ne danno uomini appartenenti ad una società per vocazione profondamente maschilista.
Sono nati così, imposizioni e divieti.
Come quello del velo, diventato nel tempo sempre più ampio, sempre più largo, sempre più avvolgente fino ad inghiottire la figura femminile. Nessun versetto del Corano, in verità, ne prescrive l'uso, ereditato dalla cultura pre-islamica. E nessun versetto coranico ingiunge alla donna di abbassare lo sguardo perché offenderebbe la "superiorità del maschio".
Né è il Corano a imporre l'istituto della poligamia, secondo cui l'uomo può avere fino a quattro mogli o quello del facile ripudio, che permette all'uomo di liberarsi della moglie anche senza giusta causa. Si tratta di antiche consuetudini cui un certo tipo di uomo è rimasto tenacemente attaccato.
Grazie al movimento per l'emancipazione femminile "Periodo del Risveglio", che già nel 1923 portò la Turchia all'abolizione della Sharia ed alla laicizzazione dello Stato, alcune cose oggi sono cambiate... cambiamenti che hanno contribuito alla nascita di progetti sociali e culturali su cui ancora oggi si scontrano Progressisti e Fondamentalisti.
Oggi, la poligamia, pur riconosciuta, è praticata solo in bassissima percentuale e la maggior parte dei matrimoni sono monogami. In materia di diritto familiare, alla donna divorziata è finalmente riconosciuto il diritto di tenere il figlio con sé fino a nuove nozze o di non contrarre matrimonio contro la propria volontà; in alcuni Paesi poligamia e ripudio sono stati aboliti.
Alla donna araba oggi, è riconosciuto il diritto all'istruzione ed al lavoro come in ogni altra società.
Quando si parla di donna araba non si parla di una sola realtà, ma di un mondo variegato con realtà diverse, che non devono indulgere l'osservatore esterno a facili pregiudizi. Come nella società occidentale un'italiana è diversa da una svedese, nella società araba una saudita lo è da una tunisina.
E' paradossale che a diffondere lo stereotipo della donna araba sottomessa e completmente assoggettata all'uomo siano solo fatti di cronaca e si tralascino invece le conquiste, numerose, delle donne arabe nell'ambito della società.
Uscita dal limbo di ignoranza in cui è vissuta per secoli, la donna araba oggi conosce, al pari della donna occidentale, molte nuove realtà. Come la donna occidentale e soprattutto negli ultimi decenni, ha conseguito successi e conquistato diritti.
Uno di queste conquiste è il diritto a coprirsi il capo, se desidera farlo e se non vi é costretta da qualcuno o da qualche precetto.
La donna nella cultura biblica
Presso l’antico popolo ebraico, i costumi familiari erano senza ombra di dubbio improntati sul Patriarcato. I nomi dei grandi Patriarchi sono noti a tutti: Abramo, Isacco, Giacobbe…
Notevole rilievo viene, dunque, dato all’uomo nell’ambito della famiglia e assai meno alla donna.
Bisogna, però, tener presente che il fondamento del Patriarcato aveva come fine la forza strutturale della tribù.
Ma vediamo nel dettaglio quella che era la condizione della donna biblica.
Non aveva alcuna potestà sui figli, essendo, questa, esercitata quasi esclusivamente dal padre.
Alla donna non era consentito ripudiare il marito; viceversa, questi poteva farlo in qualunque momento.
Soprattutto in caso di sterilità: un difetto fisico imputabile solo alla donna.
Rimasta vedova, la legge le imponeva di sposare il fratello del marito.
In caso di necessità (e talvolta anche senza tale esigenza) il padre poteva vendere la figlia come concubina… consolante, però, sapere che a questo padre (sempre in caso di necessità) veniva concessa la facoltà di vendersi anche i figli maschi…
Qualcosa di buono per la donna?… sembra che la somma versata dallo sposo per procurarsi una moglie, restasse a lei, invece che aggiungersi al patrimonio dei nuovi parenti.
Qualcosa di simile accadeva anche alle donne romane, specialmente in epoca imperiale, le quali seppero farne buon uso (come vedremo in seguito) per affrancarsi (i primi tentativi, in verità) da secolari tradizioni.
Notevole rilievo viene, dunque, dato all’uomo nell’ambito della famiglia e assai meno alla donna.
Bisogna, però, tener presente che il fondamento del Patriarcato aveva come fine la forza strutturale della tribù.
Ma vediamo nel dettaglio quella che era la condizione della donna biblica.
Non aveva alcuna potestà sui figli, essendo, questa, esercitata quasi esclusivamente dal padre.
Alla donna non era consentito ripudiare il marito; viceversa, questi poteva farlo in qualunque momento.
Soprattutto in caso di sterilità: un difetto fisico imputabile solo alla donna.
Rimasta vedova, la legge le imponeva di sposare il fratello del marito.
In caso di necessità (e talvolta anche senza tale esigenza) il padre poteva vendere la figlia come concubina… consolante, però, sapere che a questo padre (sempre in caso di necessità) veniva concessa la facoltà di vendersi anche i figli maschi…
Qualcosa di buono per la donna?… sembra che la somma versata dallo sposo per procurarsi una moglie, restasse a lei, invece che aggiungersi al patrimonio dei nuovi parenti.
Qualcosa di simile accadeva anche alle donne romane, specialmente in epoca imperiale, le quali seppero farne buon uso (come vedremo in seguito) per affrancarsi (i primi tentativi, in verità) da secolari tradizioni.
La donna nella cultura cristiana
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La donna nella cultura cinese
Indefinibile! E' il solo termine per definire la donna cinese. Difficile per noi occidentali.
Ci è sempre apparsa semplice, forte e saggia: specchio della millenaria civiltà che l'ha sostenuta. Fragile, ma solo apparentemente; misteriosa ed enigmatica, custode delle proprie tradizioni ed usanze. Nascosta dietro il trucco elaborato come dietro una maschera; l'acconciatura semplice oppure elaborata, ma quasi sempre ornata di fiori. La veste di seta o di semplice cotone, ma sempre semplice, bella ed elegante.
Recita così un'antica poesia cinese:
"Come la liana abbraccia l'albero in ogni parte,
così tu abbracci me:
Sii la mia compagna e non lasciarmi mai più.
Come l'aquila nel lanciarsi in volo batte il suolo con le ali,
così io batto alla tua porta:
Sii la mia compagna e non staccarti da me."
Meravigliosi versi d'amore che non devono farci dimenticare i tanti aspetti per noi sconcertanti. Come l'usanza antica di fasciare i piedi: un piedino infilato in una minuscola babbuccia ricamata, simbolo di fascino ed eleganza.
Un'usanza lontana risalente, sembra, al X secolo, per acquisire grazia, leggerezza e soprattutto quel "movimento" arioso ed inimitabile. Un'usanza, però, assai penosa e dolorosa, che non teneva in nessun conto la donna costretta a subirla. Quei piedi strettamente fasciati condizionavano la sua vita e la costringevano a restare in casa, con il risultato di trovarsi relegata al solo ruolo che le si voleva assegnare: quello di sposa.
Quale, dunque, la condizione della donna nella cultura cinese?
In una società profondsmente e particolarmente partiarcale e maschilista, la donna non poteva godere di privilegi: era l'uomo a perpetrare la specie e la donna ne era solo lo strumento.
In verità, sorte e considerazione non diversa era riservata anche alle donne di altre latitudini... compresa la nostra.
Come tutti i Paesi di grandi contraddizioni, la Cina si presenta oggi con due facce: città ricche, industrializzate ed occidentalizzate e campagne povere, arretrate e tenacemente legate alle tradizioni.
La tradizione vuole la donna "ceduta" , attraverso il matrmonio, dalla famiglia del padre a quella del marito e vuole la donna relegata al ruolo subordinato di moglie e sposa.
Oggi le cose sono un po' cambiate.
Oggi molte giovani donne cinesi partono per l'Occidente per studiare o lavorare; molto di loro sono bene inserite nella società, nel lavoro, nela politica, ma molte ancora restano nelle campagne e nel proprio limbo di ignoranza, completamente sottoposte all'uomo, defraudate dei diritti più elementsri e spogliate della dignità di essere umano,
L'aspetto più triste e drammatico, forse, della mancata considerazione nei riguardi della donna, è la vergognosa piaga del gendercidio, da attribuire alla politica del "figlio unico", adottata per porre un freno all'esplosone demografica degli ultimi decenni.
Per avere un figlio maschio, infatti, si ricorre alla selezione genetica, pur vietata dalla legge, con il risultato paradossale di un numero superiore di maschi rispetto alle femmine (eliminate allo stato di feto o addirittura di neonato).
Per di più, per qualche ragione che andrebbe analizzata, i giovani europei sono sempre più attratio dal fascino dolce e discreto delle ragazze orientali ed il numero di unioni miste è sempre in crescita.
E' forse il nuovo sogno?
La donna del Rinascimento
Rinascimento! Una parola che evoca immediatamente grandiosità ed esuberanza, sfarzo ed eleganza, genio ed innovazione, ma, al contempo, licenziosità e barbaria, ferocia e corruzione, faziosità ed intrigo. Soprattutto il Rinascimento italiano che, proprio attraverso queste contraddizioni, sviluppò uno straordinario corollario artistico, politico e di costume che segnò il passaggio dal Medioevo all’Età Moderna ed abbracciò tre secoli: il ‘400, il ‘500 e parte del ‘600.
Cito solo alcuni nome: Raffaello, Tiziano e Michelangelo, Petrarca e Ariosto, Machiavelli, Leone X e Giulio Secondo, Leonardo e Lorenzo il Magnifico. E poi, i Borgia, ecc…
Come si colloca la donna all’interno di questo esuberante e controverso palcoscenico?
Il ‘400, ma non solo quello, fu definito: il secolo delle cortigiane.
Il ‘400 fu il secolo di santi ed eretici, papi e cardinali, principi e politici, ma fu definito anche il “secolo delle cortigiane”.
A Roma come a Firenze, a Ravenna come a Venezia, le cortigiane dominavano la scena di questo straordinario momento di rinnovamento e di risveglio dopo il torpore della tradizione.
Il ruolo e l’influenza, che queste donne ebbero nella vita artistica politica e religiosa, fu grandissimo.
Si dice che nella sola Roma di papa Sisto IV e Giulio II, si contassero non meno di sette mila cortigiane.
C’erano cortigiane d’ogni categoria: di strada e d’alto bordo. Queste ultime, colte e raffinate, talvolta perfino letterate, rivestirono un ruolo assai significativo nella politica di quel periodo e fecero da Muse ispiratrici per i tanti artisti del tempo.
Non tutte le donne, naturalmente, erano cortigiane. C’erano donne potenti per nascita. Come Lucrezia Borgia, tanto criticata dai posteri quanto dai contemporanei (a torto o a ragione, Isabella d’Este, bella colta e diplomatica; c’era, poi, la grande Caterina dei Medici.
La donna del Rinascimento godeva, dunque, di un potere acquisito con l’arte della seduzione e l’esercizio dell’intrigo e della diplomazia.
Ma non erano solo cortigiane e nobildonne ad animare le scene: una moltitudine di popolane indigenti, malate e malnutrite (è l’epoca delle grandi epidemie), prive di qualunque diritto e considerazione, assediavano quelle scene.
Tanto era lo sfarzo delle corti di Dogi, Papi, Re e Principi, tanto era lo squallore delle strade e delle periferie di città come Roma, Milano o Venezia.
A Venezia, se da un lato si continuava ad emettere Provvedimenti allo scopo di porre fine al lusso eccessivo delle patrizie, dall’altro, le popolane si accalcavano e accapigliavano davanti ai fondaci dove si distribuiva la farina.
Una certa evoluzione della condizione della donna nel periodo rinascimentale va, comunque, riconosciuta e ricercata in diversi fattori. Il più importante, forse, stranamente, fu il matrimonio, che rallentò i vincoli di controllo stretti intorno a lei.
Prima del matrimonio, infatti, le ragazze conducevano una vita assai ritirata e controllata; celebrate le nozze, però, acquisivano, se non autorità, una certa autonomia e libertà.
Non al pari di una cortigiana, naturalmente, che possedeva molta autonomia, ma poca onorabilità: la cortigiana era una donna che aveva portato la prostituzione nei Palazzi del Potere, ricevendone in cambio ricchezza e protezione… ma questa è una nota che duole anche ai tempi nostri!
Cito solo alcuni nome: Raffaello, Tiziano e Michelangelo, Petrarca e Ariosto, Machiavelli, Leone X e Giulio Secondo, Leonardo e Lorenzo il Magnifico. E poi, i Borgia, ecc…
Come si colloca la donna all’interno di questo esuberante e controverso palcoscenico?
Il ‘400, ma non solo quello, fu definito: il secolo delle cortigiane.
Il ‘400 fu il secolo di santi ed eretici, papi e cardinali, principi e politici, ma fu definito anche il “secolo delle cortigiane”.
A Roma come a Firenze, a Ravenna come a Venezia, le cortigiane dominavano la scena di questo straordinario momento di rinnovamento e di risveglio dopo il torpore della tradizione.
Il ruolo e l’influenza, che queste donne ebbero nella vita artistica politica e religiosa, fu grandissimo.
Si dice che nella sola Roma di papa Sisto IV e Giulio II, si contassero non meno di sette mila cortigiane.
C’erano cortigiane d’ogni categoria: di strada e d’alto bordo. Queste ultime, colte e raffinate, talvolta perfino letterate, rivestirono un ruolo assai significativo nella politica di quel periodo e fecero da Muse ispiratrici per i tanti artisti del tempo.
Non tutte le donne, naturalmente, erano cortigiane. C’erano donne potenti per nascita. Come Lucrezia Borgia, tanto criticata dai posteri quanto dai contemporanei (a torto o a ragione, Isabella d’Este, bella colta e diplomatica; c’era, poi, la grande Caterina dei Medici.
La donna del Rinascimento godeva, dunque, di un potere acquisito con l’arte della seduzione e l’esercizio dell’intrigo e della diplomazia.
Ma non erano solo cortigiane e nobildonne ad animare le scene: una moltitudine di popolane indigenti, malate e malnutrite (è l’epoca delle grandi epidemie), prive di qualunque diritto e considerazione, assediavano quelle scene.
Tanto era lo sfarzo delle corti di Dogi, Papi, Re e Principi, tanto era lo squallore delle strade e delle periferie di città come Roma, Milano o Venezia.
A Venezia, se da un lato si continuava ad emettere Provvedimenti allo scopo di porre fine al lusso eccessivo delle patrizie, dall’altro, le popolane si accalcavano e accapigliavano davanti ai fondaci dove si distribuiva la farina.
Una certa evoluzione della condizione della donna nel periodo rinascimentale va, comunque, riconosciuta e ricercata in diversi fattori. Il più importante, forse, stranamente, fu il matrimonio, che rallentò i vincoli di controllo stretti intorno a lei.
Prima del matrimonio, infatti, le ragazze conducevano una vita assai ritirata e controllata; celebrate le nozze, però, acquisivano, se non autorità, una certa autonomia e libertà.
Non al pari di una cortigiana, naturalmente, che possedeva molta autonomia, ma poca onorabilità: la cortigiana era una donna che aveva portato la prostituzione nei Palazzi del Potere, ricevendone in cambio ricchezza e protezione… ma questa è una nota che duole anche ai tempi nostri!
La Donna dei Barbari
Bisogna innanzitutto precisare che “barbaro” non vuol dire “uomo con la barba”, come disse un mio alunno, solo perché i “barbari” sui testi di storia sono raffigurati quasi sempre con la barba. “Barbaro” significa “Straniero” ed è con questo termine che furono chiamate le popolazioni d’oltr’Alpe conquistate durante le campagne militari, ma anche tutti quei popoli che calarono in Italia dal Nord dell’Europa, verso la fine dell’Impero Romano.
Erano per lo più popolazioni rozze, feroci ed ignoranti, dedite al saccheggio ed alla devastazione.
Non tutti, in verità! Popoli come Franchi o Longobardi, erano civili e politicamente bene organizzati.
Tutti quei popoli, però, avevano un comune denominatore: la donna e il ruolo che ella rivestiva nella società.
Erano per lo più popolazioni rozze, feroci ed ignoranti, dedite al saccheggio ed alla devastazione.
Non tutti, in verità! Popoli come Franchi o Longobardi, erano civili e politicamente bene organizzati.
Tutti quei popoli, però, avevano un comune denominatore: la donna e il ruolo che ella rivestiva nella società.
LA DONNA dei GALLI e dei GERMANI
La condizione della donna presso queste popolazioni era di autentica parità con l’uomo, sebbene svolgesse compiti a lei più congeniali. La parità tra i sessi era una delle caratteristiche più importanti della società celtica.
Brave a filare, tessere e cucire, la donna celtica era spesso indovina, sacerdotessa e guerriera.
Godeva di libertà assoluta su ogni piano e la sua piena libertà sessuale era espressione del grande potere che la “maternità” esercitava su quelle popolazioni.
Miti e Leggende esaltano l’uomo celtico, facendone un super-uomo impegnato in un costante sforzo inteso a dimostrare d’essere il migliore. In realtà, quei leggendari guerrieri e super-eroi, era dalle donne che andavano ad apprendere l’arte della guerra.
La donna celtica aveva spiccate attitudini alla guerra e i futuri guerrieri la sceglievano come “Maestro”, come dice il mitico eroe Cuchulainn.
Quel lato feroce e cruento, però, in creature deputate a creare la vita, finì per alimentare un alone di inquietudine ed ambiguità sulle figure di quelle donne-guerriere.
Molti i loro nomi.
La celeberrima Budica, che condusse alla rivolta il popolo Bretone, non fu l’unica Regina-guerriera. Celebrate sono le eroiche vicende di Eponima e Camma, eroine dei Galli. Le donne dei Cimbri, poi, seguivano i mariti in guerra e li incitavano alla battaglia attraversando di corsa gli accampamenti, agitando armi e suonando rumorosi strumenti.
Infine, come disse Tacito a proposito delle donne dell’isola di Mona, in Britannia, che combatterono al fianco dei propri uomini:
“… nude e tinte di nero, quelle donne incutevano grande rispetto nel popolo…”
“La virtù dei Galli rifulge tutta nelle loro donne.” diceva Cesare e il generale Ammiano Marcellino rincarava così:
“Nessuna banda di stranieri potrebbe resistere ad un solo celtico in una rissa, tanto più se chiamerà anche sua moglie, ancora più forte di lui.”
La condizione della donna presso queste popolazioni era di autentica parità con l’uomo, sebbene svolgesse compiti a lei più congeniali. La parità tra i sessi era una delle caratteristiche più importanti della società celtica.
Brave a filare, tessere e cucire, la donna celtica era spesso indovina, sacerdotessa e guerriera.
Godeva di libertà assoluta su ogni piano e la sua piena libertà sessuale era espressione del grande potere che la “maternità” esercitava su quelle popolazioni.
Miti e Leggende esaltano l’uomo celtico, facendone un super-uomo impegnato in un costante sforzo inteso a dimostrare d’essere il migliore. In realtà, quei leggendari guerrieri e super-eroi, era dalle donne che andavano ad apprendere l’arte della guerra.
La donna celtica aveva spiccate attitudini alla guerra e i futuri guerrieri la sceglievano come “Maestro”, come dice il mitico eroe Cuchulainn.
Quel lato feroce e cruento, però, in creature deputate a creare la vita, finì per alimentare un alone di inquietudine ed ambiguità sulle figure di quelle donne-guerriere.
Molti i loro nomi.
La celeberrima Budica, che condusse alla rivolta il popolo Bretone, non fu l’unica Regina-guerriera. Celebrate sono le eroiche vicende di Eponima e Camma, eroine dei Galli. Le donne dei Cimbri, poi, seguivano i mariti in guerra e li incitavano alla battaglia attraversando di corsa gli accampamenti, agitando armi e suonando rumorosi strumenti.
Infine, come disse Tacito a proposito delle donne dell’isola di Mona, in Britannia, che combatterono al fianco dei propri uomini:
“… nude e tinte di nero, quelle donne incutevano grande rispetto nel popolo…”
“La virtù dei Galli rifulge tutta nelle loro donne.” diceva Cesare e il generale Ammiano Marcellino rincarava così:
“Nessuna banda di stranieri potrebbe resistere ad un solo celtico in una rissa, tanto più se chiamerà anche sua moglie, ancora più forte di lui.”
LA DONNA degli UNNI
Unni, Vandali… sono nomi che evocano orde selvagge nell’atto di devastare, depredare, distruggere ogni cosa lungo il proprio cammino.
Qual era la condizione della donna all’interno di popolazioni così violente e sempre dedite alla guerra?
Il “barbaro” nutriva per la sua donna un rispetto profondo e una altrettanto profonda venerazione: era saggia, conosceva rimedi naturali per ogni malanno ed aveva con la natura un rapporto particolare ed unico.
La donna, dal canto suo, restituiva tanto rispetto con una fedeltà incondizionata che giungeva a limiti estremi, come chiudersi attorno al collo una collana con inciso il nome del proprio uomo: un collare che, una volta chiuso, non poteva più essere tolto.
Donna semplice e casta, divideva con il proprio uomo, sempre in guerra per la conquista di un territorio, una vita di pericoli e disagi.
La sua casa era un carro sempre in movimento e solo di rado, nelle brevi soste di quegli interminabili percorsi, trovava riparo sotto una tenda. Tesseva, cuciva e ricamava ed utilizzava tutto quanto la natura era in grado di offrire. Si occupava dei figli e della famiglia, ma anche delle necessità della tribù, dentro la quale godeva di una parità con gli uomini, sconosciuta alla società “civile”.
Unni, Vandali… sono nomi che evocano orde selvagge nell’atto di devastare, depredare, distruggere ogni cosa lungo il proprio cammino.
Qual era la condizione della donna all’interno di popolazioni così violente e sempre dedite alla guerra?
Il “barbaro” nutriva per la sua donna un rispetto profondo e una altrettanto profonda venerazione: era saggia, conosceva rimedi naturali per ogni malanno ed aveva con la natura un rapporto particolare ed unico.
La donna, dal canto suo, restituiva tanto rispetto con una fedeltà incondizionata che giungeva a limiti estremi, come chiudersi attorno al collo una collana con inciso il nome del proprio uomo: un collare che, una volta chiuso, non poteva più essere tolto.
Donna semplice e casta, divideva con il proprio uomo, sempre in guerra per la conquista di un territorio, una vita di pericoli e disagi.
La sua casa era un carro sempre in movimento e solo di rado, nelle brevi soste di quegli interminabili percorsi, trovava riparo sotto una tenda. Tesseva, cuciva e ricamava ed utilizzava tutto quanto la natura era in grado di offrire. Si occupava dei figli e della famiglia, ma anche delle necessità della tribù, dentro la quale godeva di una parità con gli uomini, sconosciuta alla società “civile”.
LA DONNA dei FRANCHI e dei LONGOBARDI
E’ giunta l’epoca dei Castelli.
Franchi, Goti, Longobardi, scesi in Italia con i loro eserciti, hanno occupato territori, ma hanno finito per adottare usi e costumi del Paese conquistato senza, però, rigettare le proprie usanze.
La donna è diventata la “castellana”. E’ riverita e rispettata da tutti. Compreso il marito.
Costui è continuamente impegnato in guerre e battaglie e perciò, sempre lontano dal castello e dal proprio feudo; quando non è lontano, spende il proprio tempo in tornei e battute di caccia.
Madre e sposa di guerrieri sempre lontani da casa, questa donna diventa sempre più potente, la sua posizione sempre più consolidata.
La troviamo impegnata a condurre e dirigere la vita nel castello, dove è diventata la signora incontrastata, soprattutto in assenza del marito.
Troviamo, dunque, la donna del primo millennio, in una posizione di privilegio, ma non è propriamente così: privilegi, sì, ma solamente se si appartiene alla nobiltà. Ben altra sorte, infatti, è quella della popolana che, oltre ai disagi della povertà, deve subire spesso anche l’onta dello stupro da parte del vincitore.
Questa, però, è una storia vecchia… vecchia quanto il potere del maschio!
E’ giunta l’epoca dei Castelli.
Franchi, Goti, Longobardi, scesi in Italia con i loro eserciti, hanno occupato territori, ma hanno finito per adottare usi e costumi del Paese conquistato senza, però, rigettare le proprie usanze.
La donna è diventata la “castellana”. E’ riverita e rispettata da tutti. Compreso il marito.
Costui è continuamente impegnato in guerre e battaglie e perciò, sempre lontano dal castello e dal proprio feudo; quando non è lontano, spende il proprio tempo in tornei e battute di caccia.
Madre e sposa di guerrieri sempre lontani da casa, questa donna diventa sempre più potente, la sua posizione sempre più consolidata.
La troviamo impegnata a condurre e dirigere la vita nel castello, dove è diventata la signora incontrastata, soprattutto in assenza del marito.
Troviamo, dunque, la donna del primo millennio, in una posizione di privilegio, ma non è propriamente così: privilegi, sì, ma solamente se si appartiene alla nobiltà. Ben altra sorte, infatti, è quella della popolana che, oltre ai disagi della povertà, deve subire spesso anche l’onta dello stupro da parte del vincitore.
Questa, però, è una storia vecchia… vecchia quanto il potere del maschio!
La Donna Etrusca
La figura della donna etrusca ancor oggi è avvolta nel mistero, lo stesso che circonda la sua gente.
Dagli affreschi e dalle sculture, però, ci appare bella, elegante e raffinata; affreschi e sculture che esibiscono ricchezze e potere ed affermano la legittimazione di un’aristocrazia in cui la donna è protagonista.
Coperta dei gioielli di famiglia, che costituivano il tesoro di famiglia ereditato per via femminile, la donna etrusca ostenta lusso e potere.
Ella è, infatti, sempre presente: nei rapporti politici, nei legami fra Clan e nella creazione di Dinastie. Vive in assoluta parità con l’uomo ed ha comportamenti ritenuti, all’epoca, adatti solamente all’uomo: beve vino, partecipa ai banchetti sdraiata come un uomo e non seduta, parla di politica ed ha opinioni proprie.
Tutto questo attira su di lei il disappunto e la disapprovazione di Greci e Romani, che giudicano scandalosa la sua condotta e i suoi comportamenti.
Bisogna precisare, però, che tanta libertà, lusso e potere, sono riservati solo alle donne di rango e che le condizioni di vita di tutte le altre, schiave o popolane, erano tutt’altro che facili e felici.
Accadeva, cioè, quello che accadrà più tardi alla donna romana d’epoca imperiale: vedove di mariti morti in guerra, ne ereditavano e gestivano gli enormi patrimoni che permettevano loro l’esercizio del potere; la sola differenza era la partecipazione alla vita politica: alle romane rimase sempre interdetta.
Dagli affreschi e dalle sculture, però, ci appare bella, elegante e raffinata; affreschi e sculture che esibiscono ricchezze e potere ed affermano la legittimazione di un’aristocrazia in cui la donna è protagonista.
Coperta dei gioielli di famiglia, che costituivano il tesoro di famiglia ereditato per via femminile, la donna etrusca ostenta lusso e potere.
Ella è, infatti, sempre presente: nei rapporti politici, nei legami fra Clan e nella creazione di Dinastie. Vive in assoluta parità con l’uomo ed ha comportamenti ritenuti, all’epoca, adatti solamente all’uomo: beve vino, partecipa ai banchetti sdraiata come un uomo e non seduta, parla di politica ed ha opinioni proprie.
Tutto questo attira su di lei il disappunto e la disapprovazione di Greci e Romani, che giudicano scandalosa la sua condotta e i suoi comportamenti.
Bisogna precisare, però, che tanta libertà, lusso e potere, sono riservati solo alle donne di rango e che le condizioni di vita di tutte le altre, schiave o popolane, erano tutt’altro che facili e felici.
Accadeva, cioè, quello che accadrà più tardi alla donna romana d’epoca imperiale: vedove di mariti morti in guerra, ne ereditavano e gestivano gli enormi patrimoni che permettevano loro l’esercizio del potere; la sola differenza era la partecipazione alla vita politica: alle romane rimase sempre interdetta.
La Donna romana
La donna romana viveva in assoluta condizione di inferiorità rispetto all’uomo, da cui finiva sempre per dipendere: come padre o come marito e perfino come fratello o figlio maggiore, quando restava vedova. Non conobbe mai, però, la sorte del gineceo, in cui veniva confinata la donna greca.
Soprattutto in età repubblicana, la sua sottomissione al maschio era totale: il marito aveva sulla moglie diritto di vita e di morte.
In caso di adulterio e perfino se fosse stata sorpresa a bere vino, veniva punita con la morte. (la sbronza era considerata il primo passo verso l’adulterio).
La posizione economica era fortemente penalizzata essendo, la sua dote, completamente integrata con quella del marito, che poteva disporne a piacimento.
Non era mai sola, ma vigilata e sempre accompagnata. Il suo solo scopo di vita era la cura della casa e dei figli.( in caso di mancanza di figli, poi, era sempre lei quella sterile e mai il marito che, per quella “mancanza” poteva chiedere il divorzio).
La donna della Roma repubblicana è, dunque, una donna virtuosa, completamente dedita alla casa e alla famiglia. E’ anche una donna sobriamente elegante, però, e suo è il merito di aver indossato per prima la biancheria intima.
La società e la famiglia romana, però, non erano statiche, ma in continua evoluzione; vediamo, così, nel corso dei secoli, la donna romana migliorare la propria posizione economica e la propria indipendenza. E’ sempre in condizione di inferiorità rispetto al maschio, (che arriva perfino a discutere se ella possieda oppure no un’anima), ma la vediamo sempre più impegnata a riscattare la propria condizione. Come avvenne nel 195, quando un nutrito gruppo di donne scese in piazza per manifestare contro la Lex Oppia, una legge che stabiliva che le donne non potessero possedere più di mezza oncia d’oro, indossare abiti ornati di porpora, e altro ancora...
Già nell’ultimo periodo repubblicano le donne videro migliorate le proprie condizioni: potevano disporre dei propri beni, applicarsi alle lettere, ecc.
In epoca imperiale, poi, anche la pressione morale andò rallentando e così il costume, che divenne sempre più libero e libertino.
Assistiamo ad un grande mutamento: abbiamo lasciato una donna sottomessa e fedele e la ritroviamo capricciosa ed indipendente.
Le donne appartenenti a ricche famiglie si occupano sempre meno di casa e figli ( lasciati nelle mani di schiavi e precettori) e sempre più di feste e banchetti; banchetti e festini, però, sono occasioni per ostentare ricchezze e potere, anche da parte dei maschi.
La donna romana d’epoca imperiale veste di seta e splende di ori e gioielli. Dedica almeno metà della giornata, attorniata da schiave, alla cura del corpo e dell’abbigliamento. Per nascondere la bassa statura esibisce tacchi vertiginosi e per assecondare l’irrefrenabile vanità, si affida a belletti, cosmetici ed elaboratissime acconciature cosparse di polvere d’oro.
Letteralmente coperta di gioielli da capo a piedi, la donna romana ostenta le ricchezze predate ad altre donne in terre lontane; compreso le pellicce, diventate un accessorio indispensabile.
La parità con l’uomo… beh…
Nonostante il lusso sfrenato, l’apparente o reale indipendenza economica, non c’era proprio alcuna parità di sesso.
Giuridicamente non contava nulla e forse era solo questo che le mancava: la parità con l’uomo. (Cosa da poco!... No?!!!)
Soprattutto in età repubblicana, la sua sottomissione al maschio era totale: il marito aveva sulla moglie diritto di vita e di morte.
In caso di adulterio e perfino se fosse stata sorpresa a bere vino, veniva punita con la morte. (la sbronza era considerata il primo passo verso l’adulterio).
La posizione economica era fortemente penalizzata essendo, la sua dote, completamente integrata con quella del marito, che poteva disporne a piacimento.
Non era mai sola, ma vigilata e sempre accompagnata. Il suo solo scopo di vita era la cura della casa e dei figli.( in caso di mancanza di figli, poi, era sempre lei quella sterile e mai il marito che, per quella “mancanza” poteva chiedere il divorzio).
La donna della Roma repubblicana è, dunque, una donna virtuosa, completamente dedita alla casa e alla famiglia. E’ anche una donna sobriamente elegante, però, e suo è il merito di aver indossato per prima la biancheria intima.
La società e la famiglia romana, però, non erano statiche, ma in continua evoluzione; vediamo, così, nel corso dei secoli, la donna romana migliorare la propria posizione economica e la propria indipendenza. E’ sempre in condizione di inferiorità rispetto al maschio, (che arriva perfino a discutere se ella possieda oppure no un’anima), ma la vediamo sempre più impegnata a riscattare la propria condizione. Come avvenne nel 195, quando un nutrito gruppo di donne scese in piazza per manifestare contro la Lex Oppia, una legge che stabiliva che le donne non potessero possedere più di mezza oncia d’oro, indossare abiti ornati di porpora, e altro ancora...
Già nell’ultimo periodo repubblicano le donne videro migliorate le proprie condizioni: potevano disporre dei propri beni, applicarsi alle lettere, ecc.
In epoca imperiale, poi, anche la pressione morale andò rallentando e così il costume, che divenne sempre più libero e libertino.
Assistiamo ad un grande mutamento: abbiamo lasciato una donna sottomessa e fedele e la ritroviamo capricciosa ed indipendente.
Le donne appartenenti a ricche famiglie si occupano sempre meno di casa e figli ( lasciati nelle mani di schiavi e precettori) e sempre più di feste e banchetti; banchetti e festini, però, sono occasioni per ostentare ricchezze e potere, anche da parte dei maschi.
La donna romana d’epoca imperiale veste di seta e splende di ori e gioielli. Dedica almeno metà della giornata, attorniata da schiave, alla cura del corpo e dell’abbigliamento. Per nascondere la bassa statura esibisce tacchi vertiginosi e per assecondare l’irrefrenabile vanità, si affida a belletti, cosmetici ed elaboratissime acconciature cosparse di polvere d’oro.
Letteralmente coperta di gioielli da capo a piedi, la donna romana ostenta le ricchezze predate ad altre donne in terre lontane; compreso le pellicce, diventate un accessorio indispensabile.
La parità con l’uomo… beh…
Nonostante il lusso sfrenato, l’apparente o reale indipendenza economica, non c’era proprio alcuna parità di sesso.
Giuridicamente non contava nulla e forse era solo questo che le mancava: la parità con l’uomo. (Cosa da poco!... No?!!!)
La donna greca
Occorre innanzitutto distinguere tra Grecia Arcaica e la Grecia Classica.
Durante la prima Età, la società cominciò a scivolare pian piano dal matriarcato verso il patriarcato.
Se nel primo periodo il Re era sotto la tutela della Regina (viveva in un’ala del Palazzo Reale, esercitava il potere solo in nome della Regina e qualche volta riusciva perfino a sostituirla indossandone le vesti e gli emblemi) nel secondo, invece, lo troviamo Sovrano assoluto.
Si trattò di un percorso in ascesa lento, ma costante, iniziato quando il Paredro (principe consorte), per la prima volta rifiutò la morte e si fece sostituire da un Interrex (Sostituto). Prima fu un fanciullo o un giovane guerriero che regnava per un giorno e, se superava le prove, sposava la Regina, poi fu un animale.
Il mito parla di un certo Enopione, che rifiutò la morte anche dopo che il Sostituto ebbe superato le prove.
Soprattutto, quest’ascesa, iniziò quando il maschio si scoprì consapevole della propria sessualità e del potere della paternità.
Già verso la fine del secondo millennio a.C., il patriarcato era diventato regola e non era il principe a lasciare la casa paterna per sposare una principessa (vedi Menelao che diventa Re di Sparta per averne sposato la Regina, Elena), ma era la principessa a seguire lo sposo.
Anche nella Religione le cose cambiarono: a rimpiazzare una sola Dea, arrivò un Olimpo di Divinità governate da un Re: Zeus, con a seguito una Sposa (Era) e tanti figli, maschi e femmine (Atena, Afrodite, Ares, Efesto, Artemide, Apollo, ecc…)
Le condizioni della donna mutarono; diritti e privilegi pian piano svanirono. La troviamo, da lì a poco, relegata al focolare domestico e occupata esclusivamente nella conduzione della casa, salvo qualche eccezione. Come la donna cretese, ad esempio.
A Creta la donna, se non di parità con l’uomo, godeva di grande autonomia; nulla a che vedere con la condizione di reclusa in cui viveva la donna della vicina Micene.
Le donne greche, in generale, si occupavano della prole e della casa, tessevano e filavano, ma facevano anche altro, come guidare carri, andare a caccia, assistere a spettacoli e non solo come spettatrici, ma anche come atlete.
Da una cosa, però, erano escluse: dalla politica.
E la donna greca d’età classica?... Si dubitò perfino che possedesse un’anima!
Naturalmente non tutte erano uguali: c’erano nobili e plebee e le condizioni di vita erano diverse; medesima era, invece, la totale assenza di considerazione da parte del maschio.
Una nota a parte merita, invece, la donna di Sparta.
Orgogliosa, forte e severa, la donna spartana godeva di considerazione e libertà sconosciute alle donne degli altri Stati Greci, spesso confinate all’interno di un gineceo.
Ad Atene di ironizzava sul loro aspetto poco femminile, ma poi, era alle cure di una donna spartana che preferivano affidare la cura dei propri figli.
C’è un’ultima distinzione da fare, nella Grecia classica, e la faceva il maschio, naturalmente: la moglie e “le altre”.
La moglie era, quasi sempre, soltanto lo strumento con cui assicurarsi la discendenza; “le altre” erano, invece, il mezzo con cui procurarsi piacere fisico… quando non lo si cercava in un imberbe ragazzino. Preferibilmente di classe inferiore.
L’omosessualità, soprattutto maschile, se attiva e non passiva, era non solo ammessa, ma addirittura incoraggiata.
Plutarco, appassionato sostenitore dell’amore coniugale, diceva che l’omosessualità si trovava:
“… a caccia di giovani, nelle riunioni di filosofi oppure nei ginnasi e nelle palestre, per incoraggiare alle virtù, quelli degni delle sue attenzioni…”
Durante la prima Età, la società cominciò a scivolare pian piano dal matriarcato verso il patriarcato.
Se nel primo periodo il Re era sotto la tutela della Regina (viveva in un’ala del Palazzo Reale, esercitava il potere solo in nome della Regina e qualche volta riusciva perfino a sostituirla indossandone le vesti e gli emblemi) nel secondo, invece, lo troviamo Sovrano assoluto.
Si trattò di un percorso in ascesa lento, ma costante, iniziato quando il Paredro (principe consorte), per la prima volta rifiutò la morte e si fece sostituire da un Interrex (Sostituto). Prima fu un fanciullo o un giovane guerriero che regnava per un giorno e, se superava le prove, sposava la Regina, poi fu un animale.
Il mito parla di un certo Enopione, che rifiutò la morte anche dopo che il Sostituto ebbe superato le prove.
Soprattutto, quest’ascesa, iniziò quando il maschio si scoprì consapevole della propria sessualità e del potere della paternità.
Già verso la fine del secondo millennio a.C., il patriarcato era diventato regola e non era il principe a lasciare la casa paterna per sposare una principessa (vedi Menelao che diventa Re di Sparta per averne sposato la Regina, Elena), ma era la principessa a seguire lo sposo.
Anche nella Religione le cose cambiarono: a rimpiazzare una sola Dea, arrivò un Olimpo di Divinità governate da un Re: Zeus, con a seguito una Sposa (Era) e tanti figli, maschi e femmine (Atena, Afrodite, Ares, Efesto, Artemide, Apollo, ecc…)
Le condizioni della donna mutarono; diritti e privilegi pian piano svanirono. La troviamo, da lì a poco, relegata al focolare domestico e occupata esclusivamente nella conduzione della casa, salvo qualche eccezione. Come la donna cretese, ad esempio.
A Creta la donna, se non di parità con l’uomo, godeva di grande autonomia; nulla a che vedere con la condizione di reclusa in cui viveva la donna della vicina Micene.
Le donne greche, in generale, si occupavano della prole e della casa, tessevano e filavano, ma facevano anche altro, come guidare carri, andare a caccia, assistere a spettacoli e non solo come spettatrici, ma anche come atlete.
Da una cosa, però, erano escluse: dalla politica.
E la donna greca d’età classica?... Si dubitò perfino che possedesse un’anima!
Naturalmente non tutte erano uguali: c’erano nobili e plebee e le condizioni di vita erano diverse; medesima era, invece, la totale assenza di considerazione da parte del maschio.
Una nota a parte merita, invece, la donna di Sparta.
Orgogliosa, forte e severa, la donna spartana godeva di considerazione e libertà sconosciute alle donne degli altri Stati Greci, spesso confinate all’interno di un gineceo.
Ad Atene di ironizzava sul loro aspetto poco femminile, ma poi, era alle cure di una donna spartana che preferivano affidare la cura dei propri figli.
C’è un’ultima distinzione da fare, nella Grecia classica, e la faceva il maschio, naturalmente: la moglie e “le altre”.
La moglie era, quasi sempre, soltanto lo strumento con cui assicurarsi la discendenza; “le altre” erano, invece, il mezzo con cui procurarsi piacere fisico… quando non lo si cercava in un imberbe ragazzino. Preferibilmente di classe inferiore.
L’omosessualità, soprattutto maschile, se attiva e non passiva, era non solo ammessa, ma addirittura incoraggiata.
Plutarco, appassionato sostenitore dell’amore coniugale, diceva che l’omosessualità si trovava:
“… a caccia di giovani, nelle riunioni di filosofi oppure nei ginnasi e nelle palestre, per incoraggiare alle virtù, quelli degni delle sue attenzioni…”
La donna egizia
Rispetto alle donne appartenenti ad altre culture del suo tempo, la donna dell’Antico Egitto ha sempre goduto di grande considerazione all’interno della società. Basti citare la donna biblica, romana o medioevale; perfino i Greci si stupivano della sua libertà ed eguaglianza.
Nella vita pubblica quanto in quella privata, la troviamo impegnata in ruoli di prestigio e responsabilità.
In campo religioso ricopriva spesso cariche di “Divina Adoratrice” o “Grande Sacerdotessa” di Divinità importanti come Sekhmet, Iside, Hathor; in campo amministrativo la si poteva trovare perfino a capo di un Dicastero come quello degli “Unguenti e Profumi”.
Dal punto di vista giuridico, la donna egizia godeva di totale indipendenza: poteva disporre di beni economici, conservare quelli ottenuti da un divorzio, fare testamento, difendersi in tribunale, frequentare scuole, ecc…
Nel privato si occupava della conduzione della propria casa, dell’educazione dei figli, dell’amministrazione di beni in proprietà con il marito e di altro ancora. La sua vita era facile e piacevole, vissuta quasi nell’ozio, tessendo o filando, tra feste e banchetti.
Tutto ciò, naturalmente, se si trattava di donne benestanti. Le donne di più umile origine, invece, avevano vita assai meno facile. Tessevano e filavano anch’esse, ma oltre a ciò, si occupavano dei lavori domestici e di quelli dei campi e facevano mille altre cose… come tutte le donne del mondo, prima e dopo di loro.
Diverse, però, era l’esistenza all’interno di un Ipet, il gineceo reale.
Qui, le donne vivevano in una condizione di recluse, all’interno di una gabbia dorata, con il solo scopo di arrecar piacere al Sovrano e senza nessuno dei diritti riservati alle donne comuni; scelte in tutto il Regno, quella condizione, però, era un grande onore per se stesse e le loro famiglie.
Nella vita pubblica quanto in quella privata, la troviamo impegnata in ruoli di prestigio e responsabilità.
In campo religioso ricopriva spesso cariche di “Divina Adoratrice” o “Grande Sacerdotessa” di Divinità importanti come Sekhmet, Iside, Hathor; in campo amministrativo la si poteva trovare perfino a capo di un Dicastero come quello degli “Unguenti e Profumi”.
Dal punto di vista giuridico, la donna egizia godeva di totale indipendenza: poteva disporre di beni economici, conservare quelli ottenuti da un divorzio, fare testamento, difendersi in tribunale, frequentare scuole, ecc…
Nel privato si occupava della conduzione della propria casa, dell’educazione dei figli, dell’amministrazione di beni in proprietà con il marito e di altro ancora. La sua vita era facile e piacevole, vissuta quasi nell’ozio, tessendo o filando, tra feste e banchetti.
Tutto ciò, naturalmente, se si trattava di donne benestanti. Le donne di più umile origine, invece, avevano vita assai meno facile. Tessevano e filavano anch’esse, ma oltre a ciò, si occupavano dei lavori domestici e di quelli dei campi e facevano mille altre cose… come tutte le donne del mondo, prima e dopo di loro.
Diverse, però, era l’esistenza all’interno di un Ipet, il gineceo reale.
Qui, le donne vivevano in una condizione di recluse, all’interno di una gabbia dorata, con il solo scopo di arrecar piacere al Sovrano e senza nessuno dei diritti riservati alle donne comuni; scelte in tutto il Regno, quella condizione, però, era un grande onore per se stesse e le loro famiglie.
La Donna Neolitica
Ci troviamo nell’Europa Proto-storica e vige il Matriarcato.
A quel tempo, al vertice della società non c’era ancora un Re con a fianco una Regina, ma una Regina con a fianco il suo Paredro. (Principe Consorte, diremmo oggi)
Non c’erano Dei, ma solo una Dea: la Grande-Dea, immortale ed onnipotente, il cui simbolo era la Luna, l’astro misterioso, fonte di superstizione paure ed apportatrice di piogge benefiche.
La Matriarca, custode del Mistero della Maternità, era riverita e rispettata da tutti e da tutti era temuta. Soprattutto dagli uomini, i cui compiti erano quelli di custodire gli armenti, cacciare e difendere la tribù da attacchi nemici.
Alla donna spettava invece il compito di allevare la prole, occuparsi della casa e lavorare nei campi; condizioni di vita dure, dunque, ma non di dipendenza dal maschio.
Perfino l’elezione di un capo avveniva per discrezione della Matriarca, che era anche la custode del Fuoco-Sacro, mantenuto vivo sotto la cenere, all’interno di una grotta.
La Matriarca si sceglieva ogni anno un principe-consorte, ossia un Re, da sacrificare alla fine dell’anno, affinché il suo sangue apportasse fecondità ai campi; lo uccideva, dopo essersi accoppiata con lui, così come, in natura, l’Ape-Regina uccide il maschio.
Bisognerà attendere il XVII secolo a.C. e le invasioni Elleniche ed Achee e successivamente quelle in Tessaglia, Peloponneso e Grecia centrale, per assistere al cedimento del matriarcato in favore di un progressivo patriarcato.
A quel tempo, al vertice della società non c’era ancora un Re con a fianco una Regina, ma una Regina con a fianco il suo Paredro. (Principe Consorte, diremmo oggi)
Non c’erano Dei, ma solo una Dea: la Grande-Dea, immortale ed onnipotente, il cui simbolo era la Luna, l’astro misterioso, fonte di superstizione paure ed apportatrice di piogge benefiche.
La Matriarca, custode del Mistero della Maternità, era riverita e rispettata da tutti e da tutti era temuta. Soprattutto dagli uomini, i cui compiti erano quelli di custodire gli armenti, cacciare e difendere la tribù da attacchi nemici.
Alla donna spettava invece il compito di allevare la prole, occuparsi della casa e lavorare nei campi; condizioni di vita dure, dunque, ma non di dipendenza dal maschio.
Perfino l’elezione di un capo avveniva per discrezione della Matriarca, che era anche la custode del Fuoco-Sacro, mantenuto vivo sotto la cenere, all’interno di una grotta.
La Matriarca si sceglieva ogni anno un principe-consorte, ossia un Re, da sacrificare alla fine dell’anno, affinché il suo sangue apportasse fecondità ai campi; lo uccideva, dopo essersi accoppiata con lui, così come, in natura, l’Ape-Regina uccide il maschio.
Bisognerà attendere il XVII secolo a.C. e le invasioni Elleniche ed Achee e successivamente quelle in Tessaglia, Peloponneso e Grecia centrale, per assistere al cedimento del matriarcato in favore di un progressivo patriarcato.
Personaggi femminili nel Mito e nella Storia
BRUNILDE LA VALCHIRIA
Brunilde era una delle più belle Valchirie, vergini-guerriere inviate, secondo la mitologia nordica, sui campi di battaglia a scegliere i combattenti destinati a morte gloriosa.
Era, però, anche la più testarda ed orgogliosa e con attitudine alla disobbedienza.
Proprio a causa di quel suo carattere, per punizione Odino, Re degli Dei, la relegò sulla cima di un monte circondato di fiamme.
A salvarla arrivò l’eroe di stirpe divina, Sigfrido.
Tra i due scoppiò l’amore. Reciproco e totale che, come spesso succede, attirò sui due innamorati, invidie e gelosie.
Il cattivo di turno era il mago Hayen, vero genio del male, segretamente e follemente innamorato della bella Valchiria.
Egli riuscì con un incantesimo a dividere i due amanti.
Con un filtro magico, fatto bere con l’inganno a Sigfrido, ospite del Re dei Burgundi, fece accendere d’amore e di passione il cuore dell’eroe per la bella Crimilde, figlia del Re.
Sotto l’effetto dell’incantesimo, l’eroe abbandonò Brunilde e sposò Crimilde.
E non si accontentò di questo. Brigò e ci riuscì, a far sposare Brunilde con Gunther, fratello di Crimilde
Umiliata e offesa, la bella Valchiria finse di accondiscendere alle richieste dell’ ex-innamorato: sposò Gunther, ma dentro di sé covò una terribile vendetta: rivelò al perfido Heyen il punto vulnerabile dell’eroe.
Sigfrido, infatti, in una delle tante sue imprese, aveva affrontato ed ucciso il drago Fafnir e si era bagnato nel suo sangue, rendendosi invulnerabile. Ad eccezione della spalla sinistra, su cui si era depositata una foglia.
Proprio in quel punto della spalla fu scagliata la freccia che lo uccise.
Quando apprese dell’inganno del filtro, Brunilde, non reggendo al dolore e al rimorso, si lanciò con il cavallo sulla pira che Crimilde aveva fatto innalzare per adagiare il cadavere dell’eroe, e vi trovò la morte.
Le fiamme si alzarono e raggiunsero il Walhalla, la residenza degli Dei, Odino l’accolse a braccia aperte e dove gli spiriti dei due amanti vissero uniti e per sempre.
Brunilde era una delle più belle Valchirie, vergini-guerriere inviate, secondo la mitologia nordica, sui campi di battaglia a scegliere i combattenti destinati a morte gloriosa.
Era, però, anche la più testarda ed orgogliosa e con attitudine alla disobbedienza.
Proprio a causa di quel suo carattere, per punizione Odino, Re degli Dei, la relegò sulla cima di un monte circondato di fiamme.
A salvarla arrivò l’eroe di stirpe divina, Sigfrido.
Tra i due scoppiò l’amore. Reciproco e totale che, come spesso succede, attirò sui due innamorati, invidie e gelosie.
Il cattivo di turno era il mago Hayen, vero genio del male, segretamente e follemente innamorato della bella Valchiria.
Egli riuscì con un incantesimo a dividere i due amanti.
Con un filtro magico, fatto bere con l’inganno a Sigfrido, ospite del Re dei Burgundi, fece accendere d’amore e di passione il cuore dell’eroe per la bella Crimilde, figlia del Re.
Sotto l’effetto dell’incantesimo, l’eroe abbandonò Brunilde e sposò Crimilde.
E non si accontentò di questo. Brigò e ci riuscì, a far sposare Brunilde con Gunther, fratello di Crimilde
Umiliata e offesa, la bella Valchiria finse di accondiscendere alle richieste dell’ ex-innamorato: sposò Gunther, ma dentro di sé covò una terribile vendetta: rivelò al perfido Heyen il punto vulnerabile dell’eroe.
Sigfrido, infatti, in una delle tante sue imprese, aveva affrontato ed ucciso il drago Fafnir e si era bagnato nel suo sangue, rendendosi invulnerabile. Ad eccezione della spalla sinistra, su cui si era depositata una foglia.
Proprio in quel punto della spalla fu scagliata la freccia che lo uccise.
Quando apprese dell’inganno del filtro, Brunilde, non reggendo al dolore e al rimorso, si lanciò con il cavallo sulla pira che Crimilde aveva fatto innalzare per adagiare il cadavere dell’eroe, e vi trovò la morte.
Le fiamme si alzarono e raggiunsero il Walhalla, la residenza degli Dei, Odino l’accolse a braccia aperte e dove gli spiriti dei due amanti vissero uniti e per sempre.
CRIMILDE - LA STERMINATRICE
Questa storia fa parte della mitologia nordica del popolo dei Nibelunghi. Inizia quando l’eroe Sigfrido giunge alla corte del Re dei Burgundi.
Sigfrido è un grande eroe, che ha compiuto grandi imprese: ha combattuto, vinto e ucciso il drago… nel cui sangue si è bagnato rendendosi invulnerabile, salvo una spalla su cui si era posata una foglia.
Ha conquistato la Spada Magica, la cui lama uccide al solo tocco ed ha ricevuto in dono da una maga un anello che moltiplica le forze.
Riesce anche a salvare la Valchiria Brunilde, vergine-Guerriera inviata da Odino, Padre degli Dei, a scegliere eroici guerrieri morenti da condurre nel Walhalla, dimora degli Dei.
Brunilde e Sigfrido finiscono per innamorarsi, ma il cattivo mago Hagen, con una pozione magica, fa infiammare il cuore dell’eroe per Crimilde, sorella di Gunther, re dei Burgundi, a cui Sgfrido consegna la bella Brunilde.
Furente, ma sempre innamorato del suo eroe, Brunilde è rosa dalla gelosia: Sigfrido e Crimilde sono molto felici e lei per vendicarsi del tradimento di Sigfrido, rivela ai suoi nemici il solo punto vulnerabile del suo corpo.
Responsabili della morte di Sigfrido, con una freccia scagliata in quel solo punto vulnerabile, sono il mago Hagen e lo stesso re Gunther, i quali vogliono impadronirsi del tesoro che l’eroe aveva sottratto al drago.
Brunilde, apprendendo del filtro magico, rosa dal rimorso, si getta sulla pira su cui Crimilde aveva fatto adagiare il cadavere dell’eroe.
La vendetta di Crimilde, invece, fu tremenda e seguiva un ben preciso disegno.
Si concesse come moglie ad Attila, Re degli Unni e si fece giurare che l’avrebbe assistita nella vendetta contro la propria famiglia.
La nuova Regina degli Unni invitò a corte il fratello Gunther con il suo seguito di nobili e cavalieri e il mago Hugen. Offrì loro un sontuoso banchetto, chiedendo, però, di lasciare le armi fuori del grande salone.
Crimilde chiese ai fratelli di consegnarle il mago Hagen, ma costoro si rifiutarono, poiché il mago era il solo a conoscere il posto, nel Reno, in cui Sigfrido aveva sepolto il suo tesoro.
Per ottenere quel tesoro, fa sapere il mago, nessuno del popolo dei Burgundi dovrà essere ancora in vita.
Crimilde non ebbe esitazioni e chiese da Attila, che non aspettava altro, lo sterminio della sua gente e dell’odiato mago Hagen, che si consumò durante quel banchetto fatale.
Questa storia fa parte della mitologia nordica del popolo dei Nibelunghi. Inizia quando l’eroe Sigfrido giunge alla corte del Re dei Burgundi.
Sigfrido è un grande eroe, che ha compiuto grandi imprese: ha combattuto, vinto e ucciso il drago… nel cui sangue si è bagnato rendendosi invulnerabile, salvo una spalla su cui si era posata una foglia.
Ha conquistato la Spada Magica, la cui lama uccide al solo tocco ed ha ricevuto in dono da una maga un anello che moltiplica le forze.
Riesce anche a salvare la Valchiria Brunilde, vergine-Guerriera inviata da Odino, Padre degli Dei, a scegliere eroici guerrieri morenti da condurre nel Walhalla, dimora degli Dei.
Brunilde e Sigfrido finiscono per innamorarsi, ma il cattivo mago Hagen, con una pozione magica, fa infiammare il cuore dell’eroe per Crimilde, sorella di Gunther, re dei Burgundi, a cui Sgfrido consegna la bella Brunilde.
Furente, ma sempre innamorato del suo eroe, Brunilde è rosa dalla gelosia: Sigfrido e Crimilde sono molto felici e lei per vendicarsi del tradimento di Sigfrido, rivela ai suoi nemici il solo punto vulnerabile del suo corpo.
Responsabili della morte di Sigfrido, con una freccia scagliata in quel solo punto vulnerabile, sono il mago Hagen e lo stesso re Gunther, i quali vogliono impadronirsi del tesoro che l’eroe aveva sottratto al drago.
Brunilde, apprendendo del filtro magico, rosa dal rimorso, si getta sulla pira su cui Crimilde aveva fatto adagiare il cadavere dell’eroe.
La vendetta di Crimilde, invece, fu tremenda e seguiva un ben preciso disegno.
Si concesse come moglie ad Attila, Re degli Unni e si fece giurare che l’avrebbe assistita nella vendetta contro la propria famiglia.
La nuova Regina degli Unni invitò a corte il fratello Gunther con il suo seguito di nobili e cavalieri e il mago Hugen. Offrì loro un sontuoso banchetto, chiedendo, però, di lasciare le armi fuori del grande salone.
Crimilde chiese ai fratelli di consegnarle il mago Hagen, ma costoro si rifiutarono, poiché il mago era il solo a conoscere il posto, nel Reno, in cui Sigfrido aveva sepolto il suo tesoro.
Per ottenere quel tesoro, fa sapere il mago, nessuno del popolo dei Burgundi dovrà essere ancora in vita.
Crimilde non ebbe esitazioni e chiese da Attila, che non aspettava altro, lo sterminio della sua gente e dell’odiato mago Hagen, che si consumò durante quel banchetto fatale.
ZENOBIA...Regina di Palmira
Figura di spicco nella storia dell’Impero Romano in Oriente.
Bellezza leggendaria, occhi neri e profondi, pelle levigata, capelli raccolti in treccine secondo l’uso del tempo, Zenobia era una donna di grande fascino.
Ambiziosa, intelligente e colta, parlava diverse lingue, tra cui il latino, possedeva anche qualità di moralità, prudenza e generosità.
Figlia di Giulio Aurelio Zenobio, andò sposa ad Odenato, brillante uomo politico e militare il quale, dopo una folgorante carriera fu nominato dall’imperatore Gallieno “Re dei Re” d’Oriente, con il compito di proteggere le frontiere dell’Impero dalle pressioni persiane.
Col marito Zenobia divise ogni cosa, dai fasti della corte alle fatiche militari. Lo seguì sui campi di battaglia nelle campagne militari contro i Persiani, lo sostenne nei Consigli di Guerra e lo accompagnò nelle battute di caccia al leone.
Femminile e seducente a corte, non disdegnava di indossare abiti militari ed elmo in testa, così come amava farsi raffigurare in statue e dipinti.
Curò personalmente l’educazione dei tre figli (di cui due di primo letto del marito) chiamando a corte i migliori maestri d’arme e di lettere.
Alla morte di Odenato, ucciso insieme al figlio Hairan a seguito di una congiura tesagli da un nipote, Zenobia assunse la Reggenza del Regno in nome del figlio Vaballato.
All’ambiziosa donna, però, il titolo di Reggente andava assai stretto: il suo sogno era quello creare un Impero d’Oriente e, di conseguenza, sottrarsi al giogo romano. Primo atto, fu quello di dichiararsi apertamente discendente della regina Cleopatra e proclamarsi Regina di Palmira.
A Roma, naturalmente, non la presero molto bene.
L’imperatore Aureliano, succeduto a Gallieno, avrebbe voluto regolare subito i conti con l’ambiziosa Regina, ma glielo impedirono le invasioni dei Goti e degli Eruli.
In verità, pur avendo fatto scalpore, l’ascesa al trono di Zenobia, in principio non era stata osteggiata, confidando nella lealtà che il marito aveva sempre dimostrato nei confronti di Roma.
La stessa Zenobia all’inizio aveva cercato di mantenere buoni i rapporti con Roma e fu solo più tardi che cominciò a tramare apertamente ed a non nascondere i suoi progetti di grandezza.
Per ragioni di opportunità politica e per la necessità di temporeggiare, l’imperatore Aureliano aveva perfino accordato al figlio di Zenobia il titolo di Dux Romanorum.
Appena sistemata la situazione in casa,l’imperatore si accinse a risolvere la faccenda.
L’esercito di Palmira e quello romano si scontrarono sulle rive dell’Oronte, dove Aureliano, grande stratega militare e generale di cavalleria, ottenne una strepitosa vittoria.
Zenobia e il suo generale, Zabdos, furono costretti a riparare ad Antiochia e poi a Emesa.
La vittoria decisiva di Aureliano avvenne proprio ad Emesa, ma Zenobia pur pesantemente sconfitta, non si arrese.
Si ritirò a Palmira e qui si preparò a sostenere un inevitabile assedio.
Aureliano le offrì una resa onorevole, ma la Regina fece l’errore di non accettare, fidando nell’aiuto delle tribù del deserto.
L’aiuto non arrivò mai: Roma aveva sottomesso o comprato tutte quelle popolazioni ed a Zenobia non restò che cercare la salvezza nella fuga assieme al figlio.
Fuggirono a dorso di dromedario, con l’aiuto di fedeli nomadi del deserto, ma furono riconosciuti e catturati e in seguito condotti a Roma; il figlio morì durante il viaggio.
Giunta a Roma, la bellissima prigioniera fu fatta sfilare come il più prezioso dei trofei, legata al carro dell’imperatore con catene d’oro.
Roma restò soggiogata dal suo fascino. L’imperatore non solamente le risparmiò la vita, ma la sistemò in una lussuosa villa a Tivoli, dove Zenobia visse come una Regina, animando le notti romane.
Figura di spicco nella storia dell’Impero Romano in Oriente.
Bellezza leggendaria, occhi neri e profondi, pelle levigata, capelli raccolti in treccine secondo l’uso del tempo, Zenobia era una donna di grande fascino.
Ambiziosa, intelligente e colta, parlava diverse lingue, tra cui il latino, possedeva anche qualità di moralità, prudenza e generosità.
Figlia di Giulio Aurelio Zenobio, andò sposa ad Odenato, brillante uomo politico e militare il quale, dopo una folgorante carriera fu nominato dall’imperatore Gallieno “Re dei Re” d’Oriente, con il compito di proteggere le frontiere dell’Impero dalle pressioni persiane.
Col marito Zenobia divise ogni cosa, dai fasti della corte alle fatiche militari. Lo seguì sui campi di battaglia nelle campagne militari contro i Persiani, lo sostenne nei Consigli di Guerra e lo accompagnò nelle battute di caccia al leone.
Femminile e seducente a corte, non disdegnava di indossare abiti militari ed elmo in testa, così come amava farsi raffigurare in statue e dipinti.
Curò personalmente l’educazione dei tre figli (di cui due di primo letto del marito) chiamando a corte i migliori maestri d’arme e di lettere.
Alla morte di Odenato, ucciso insieme al figlio Hairan a seguito di una congiura tesagli da un nipote, Zenobia assunse la Reggenza del Regno in nome del figlio Vaballato.
All’ambiziosa donna, però, il titolo di Reggente andava assai stretto: il suo sogno era quello creare un Impero d’Oriente e, di conseguenza, sottrarsi al giogo romano. Primo atto, fu quello di dichiararsi apertamente discendente della regina Cleopatra e proclamarsi Regina di Palmira.
A Roma, naturalmente, non la presero molto bene.
L’imperatore Aureliano, succeduto a Gallieno, avrebbe voluto regolare subito i conti con l’ambiziosa Regina, ma glielo impedirono le invasioni dei Goti e degli Eruli.
In verità, pur avendo fatto scalpore, l’ascesa al trono di Zenobia, in principio non era stata osteggiata, confidando nella lealtà che il marito aveva sempre dimostrato nei confronti di Roma.
La stessa Zenobia all’inizio aveva cercato di mantenere buoni i rapporti con Roma e fu solo più tardi che cominciò a tramare apertamente ed a non nascondere i suoi progetti di grandezza.
Per ragioni di opportunità politica e per la necessità di temporeggiare, l’imperatore Aureliano aveva perfino accordato al figlio di Zenobia il titolo di Dux Romanorum.
Appena sistemata la situazione in casa,l’imperatore si accinse a risolvere la faccenda.
L’esercito di Palmira e quello romano si scontrarono sulle rive dell’Oronte, dove Aureliano, grande stratega militare e generale di cavalleria, ottenne una strepitosa vittoria.
Zenobia e il suo generale, Zabdos, furono costretti a riparare ad Antiochia e poi a Emesa.
La vittoria decisiva di Aureliano avvenne proprio ad Emesa, ma Zenobia pur pesantemente sconfitta, non si arrese.
Si ritirò a Palmira e qui si preparò a sostenere un inevitabile assedio.
Aureliano le offrì una resa onorevole, ma la Regina fece l’errore di non accettare, fidando nell’aiuto delle tribù del deserto.
L’aiuto non arrivò mai: Roma aveva sottomesso o comprato tutte quelle popolazioni ed a Zenobia non restò che cercare la salvezza nella fuga assieme al figlio.
Fuggirono a dorso di dromedario, con l’aiuto di fedeli nomadi del deserto, ma furono riconosciuti e catturati e in seguito condotti a Roma; il figlio morì durante il viaggio.
Giunta a Roma, la bellissima prigioniera fu fatta sfilare come il più prezioso dei trofei, legata al carro dell’imperatore con catene d’oro.
Roma restò soggiogata dal suo fascino. L’imperatore non solamente le risparmiò la vita, ma la sistemò in una lussuosa villa a Tivoli, dove Zenobia visse come una Regina, animando le notti romane.
ALISSA-DIDONE: Regina di Cartagine
Di questo personaggio, che ondeggia tra storia e leggenda, si sarebbe persa ogni traccia o ricordo, se non avesse avuto un cantore d’eccezione come Virgilio.
Grazie a lui, poeti e scrittori, pittori e musicisti l’hanno resa immortale.
Didone, la mitica fondatrice di Cartagine, che il mito più antico chiama Elissa, è un personaggio epico, energico e quasi virile nel vigore dello spirito e nella risolutezza delle opere. E’ una donna energica, intelligente ed astuta.
Virgilio, però, fa di lei l’eroina di un dramma amoroso orchestrato e diretto dal Fato.
Chi era veramente la nostra eroina? La Elissa, cioè Allizah la Consacrata del mito più antico oppure la Didone, cioè la Virago
del mito virgiliano?
Sia Storia oppure Leggenda, la Elissa-Didone dell’antico mito era una donna dignitosa, forte e astuta.
Primogenita di Belo, re di Tiro, alla morte del padre ne ereditò il trono assieme al fratello Pigmalione.
Per nulla disposto a dividere il trono con la sorella, Pigmalione fece uccidere Sicheo, il ricchissimo ed amatissimo sposo di lei e prese il potere da solo.
Per evitare una guerra civile la Regina decise di lasciare Tiro ed iniziare un peregrinare nel Mediterraneo in cerca di una nuova patria.
La necessità aguzza l’ingegno, recita un adagio e la bella Elissa dette subito prova di quanto ingegno fosse dotata.
Per lasciare Tiro aveva bisogno di navi e lei non ne disponeva. Allora montò un’efficace quanto astuta messinscena per raggirare il fratello. Gli chiese un incontro per discutere e trovare un accordo e Pigmalione precipitò nella rete con l’intelletto offuscato dalla cupidigia per le di lei ricchezze.
Egli inviò immediatamente uomini e navi a prelevarla, ma la notte stessa in cui le navi approdarono nel porto, Elissa-Didone fece caricare di nascosto a bordo tutte le sue ricchezze, lasciando in bella mostra sul ponte una gran quantità di sacchi contenenti sabbia, facendo credere che l’oro fosse là dentro.
Appena le navi ebbero raggiunto il mare aperto, la Regina ordinò ai suoi uomini di gettare nelle acque l’ingente ricchezza gridando
“… meglio in mare che nelle mani infide ed indegne di Pigmalione.”
In realtà si trattava solo dei sacchi pieni di sabbia.
Timorosi della reazione del loro Re, gli uomini di Pigmalione preferirono mettersi al servizio della Regina piuttosto che tornare al cospetto del Re e puntarono la prua delle navi in direzione della prima isola.
Dopo lungo (o breve) peregrinare, le navi raggiunsero le coste della Libia ed ancora una volta la bella ed astuta Regina pose in atto un piano assai ingegnoso.
Ottenne da Jarba, un principe locale, un terreno su cui edificare la sua casa: “… grande quanto ne poteva contenere una pelle di bue”.
Jarba accettò ed Elissa lo mise elegantemente “nel sacco”.
Fece tagliare in striscioline finissime una pelle di bue e con esse tracciò un perimetro che conteneva tutta la collina e la campagna circostante.
Su quel terreno la Regina edificò la sua città: Cartagine o Birse, che in greco significa “Pelle di bue” e in fenicio vuol dire “Collina”.
Bella, affascinante, ricca e potente, la Regina di Cartagine attirò immediatamente le mire di molti pretendenti. Primo fra tutti, quelle dello stesso principe Jarba il quale giunse a minacciarla di muoverle guerra se non l’avesse accettato come sposo.
Elissa-Didone finse di accondiscendere alle richiese e chiese ed ottenne di aspettare la fine del periodo di vedovanza. Quando giunse il giorno della scelta di uno sposo, la Regina, ancora innamorata del marito e fedele al giuramento di non sostituirlo con un altro uomo (nulla da stupirsi: si era nel periodo patriarcale ed era la donna a scegliersi lo sposo) si trafisse con una spada.
Come un grande Sovrano aveva compiuto la sua impresa e non desiderava altro.
Il tardo mito, però, la vuole identificata con la donna che seguì Enea profugo a Cartagine dopo la fuga da Troia e che, abbandonata, si uccise e si gettò sul rogo lanciando imprecazioni.
Plutarco per primo respinse questa versione dei fatti resi da Virgilio, insostenibile sia per il carattere della donna che per inesattezza cronologica.
Non si tratta più del personaggio Elissa-Didone, ma piuttosto di Didone-Elissa.
Non solo Virgilio, ma anche Ovidio ne fa un personaggio da tragica-commedia.
La Didone-Elissa di Ovidio non è né epica, né mitica e tantomeno regale.
E’ una “relicta”. E’ una donna che piange e si dispera; chiede ed implora.
La Didone-Elissa di Ovidio non è l’astuta, battagliera conduttrice, fondatrice di città, che tiene a bada popolazioni avversarie, ma una donna che per amore perde ragione e dignità.
Il personaggio non ci appare eroico come nell’antico mito, ma vinto e un po’ patetico: non è più quello di una Regina gloriosa, ma di una donna fragile sopraffatta dalla passione ed accecata da un dolore senza tregua né espedienti: neppure quello abile, ma inutile, di un presunto figlio in arrivo per trattenere l’amato.
Proprio un piccolo espediente da piccola donna!
Didone-Elissa è, dunque, una donna appassionata, fragilmente femminile e in preda alla passione, che alla fine fa dire al suo poeta:
“il motivo della morte e la spada fornì Enea
ma con la sua stessa mano si tolse la vita Didone.”
Didone-Elissa, infatti, si uccide con la spada che lo stesso Enea le aveva donato.
“Per te solo ho distrutto il pudore e la fama di prima
per la quale solo io salivo al cielo” dirà Virgilio, donandole l’immortalità.
Didone, dunque, diventa immortale solo per essere una donna e soprattutto una donna fragile dopo essere stata una Regina gloriosa.
Didone, dunque, è un personaggio che diventa immortale grazie alla propria sconfitta. Ma perché?
Perché Vigilio era romano e Didone, invece, cartaginese. E perché Roma e Cartagine erano eterne nemiche.
Ma anche perché la morte di questa Regina doveva essere il primo segno della vittoria dei romani sui cartaginesi. E non doveva essere la “storia” dello scontro fra le due Potenze, bensì la “leggenda d’amore” fra due personaggi mitici finita in dramma.
Doveva essere così, perché l’EPILOGO della “Leggenda” di Didone, doveva costituire il PROLOGO della “Storia” di Roma.
Di questo personaggio, che ondeggia tra storia e leggenda, si sarebbe persa ogni traccia o ricordo, se non avesse avuto un cantore d’eccezione come Virgilio.
Grazie a lui, poeti e scrittori, pittori e musicisti l’hanno resa immortale.
Didone, la mitica fondatrice di Cartagine, che il mito più antico chiama Elissa, è un personaggio epico, energico e quasi virile nel vigore dello spirito e nella risolutezza delle opere. E’ una donna energica, intelligente ed astuta.
Virgilio, però, fa di lei l’eroina di un dramma amoroso orchestrato e diretto dal Fato.
Chi era veramente la nostra eroina? La Elissa, cioè Allizah la Consacrata del mito più antico oppure la Didone, cioè la Virago
del mito virgiliano?
Sia Storia oppure Leggenda, la Elissa-Didone dell’antico mito era una donna dignitosa, forte e astuta.
Primogenita di Belo, re di Tiro, alla morte del padre ne ereditò il trono assieme al fratello Pigmalione.
Per nulla disposto a dividere il trono con la sorella, Pigmalione fece uccidere Sicheo, il ricchissimo ed amatissimo sposo di lei e prese il potere da solo.
Per evitare una guerra civile la Regina decise di lasciare Tiro ed iniziare un peregrinare nel Mediterraneo in cerca di una nuova patria.
La necessità aguzza l’ingegno, recita un adagio e la bella Elissa dette subito prova di quanto ingegno fosse dotata.
Per lasciare Tiro aveva bisogno di navi e lei non ne disponeva. Allora montò un’efficace quanto astuta messinscena per raggirare il fratello. Gli chiese un incontro per discutere e trovare un accordo e Pigmalione precipitò nella rete con l’intelletto offuscato dalla cupidigia per le di lei ricchezze.
Egli inviò immediatamente uomini e navi a prelevarla, ma la notte stessa in cui le navi approdarono nel porto, Elissa-Didone fece caricare di nascosto a bordo tutte le sue ricchezze, lasciando in bella mostra sul ponte una gran quantità di sacchi contenenti sabbia, facendo credere che l’oro fosse là dentro.
Appena le navi ebbero raggiunto il mare aperto, la Regina ordinò ai suoi uomini di gettare nelle acque l’ingente ricchezza gridando
“… meglio in mare che nelle mani infide ed indegne di Pigmalione.”
In realtà si trattava solo dei sacchi pieni di sabbia.
Timorosi della reazione del loro Re, gli uomini di Pigmalione preferirono mettersi al servizio della Regina piuttosto che tornare al cospetto del Re e puntarono la prua delle navi in direzione della prima isola.
Dopo lungo (o breve) peregrinare, le navi raggiunsero le coste della Libia ed ancora una volta la bella ed astuta Regina pose in atto un piano assai ingegnoso.
Ottenne da Jarba, un principe locale, un terreno su cui edificare la sua casa: “… grande quanto ne poteva contenere una pelle di bue”.
Jarba accettò ed Elissa lo mise elegantemente “nel sacco”.
Fece tagliare in striscioline finissime una pelle di bue e con esse tracciò un perimetro che conteneva tutta la collina e la campagna circostante.
Su quel terreno la Regina edificò la sua città: Cartagine o Birse, che in greco significa “Pelle di bue” e in fenicio vuol dire “Collina”.
Bella, affascinante, ricca e potente, la Regina di Cartagine attirò immediatamente le mire di molti pretendenti. Primo fra tutti, quelle dello stesso principe Jarba il quale giunse a minacciarla di muoverle guerra se non l’avesse accettato come sposo.
Elissa-Didone finse di accondiscendere alle richiese e chiese ed ottenne di aspettare la fine del periodo di vedovanza. Quando giunse il giorno della scelta di uno sposo, la Regina, ancora innamorata del marito e fedele al giuramento di non sostituirlo con un altro uomo (nulla da stupirsi: si era nel periodo patriarcale ed era la donna a scegliersi lo sposo) si trafisse con una spada.
Come un grande Sovrano aveva compiuto la sua impresa e non desiderava altro.
Il tardo mito, però, la vuole identificata con la donna che seguì Enea profugo a Cartagine dopo la fuga da Troia e che, abbandonata, si uccise e si gettò sul rogo lanciando imprecazioni.
Plutarco per primo respinse questa versione dei fatti resi da Virgilio, insostenibile sia per il carattere della donna che per inesattezza cronologica.
Non si tratta più del personaggio Elissa-Didone, ma piuttosto di Didone-Elissa.
Non solo Virgilio, ma anche Ovidio ne fa un personaggio da tragica-commedia.
La Didone-Elissa di Ovidio non è né epica, né mitica e tantomeno regale.
E’ una “relicta”. E’ una donna che piange e si dispera; chiede ed implora.
La Didone-Elissa di Ovidio non è l’astuta, battagliera conduttrice, fondatrice di città, che tiene a bada popolazioni avversarie, ma una donna che per amore perde ragione e dignità.
Il personaggio non ci appare eroico come nell’antico mito, ma vinto e un po’ patetico: non è più quello di una Regina gloriosa, ma di una donna fragile sopraffatta dalla passione ed accecata da un dolore senza tregua né espedienti: neppure quello abile, ma inutile, di un presunto figlio in arrivo per trattenere l’amato.
Proprio un piccolo espediente da piccola donna!
Didone-Elissa è, dunque, una donna appassionata, fragilmente femminile e in preda alla passione, che alla fine fa dire al suo poeta:
“il motivo della morte e la spada fornì Enea
ma con la sua stessa mano si tolse la vita Didone.”
Didone-Elissa, infatti, si uccide con la spada che lo stesso Enea le aveva donato.
“Per te solo ho distrutto il pudore e la fama di prima
per la quale solo io salivo al cielo” dirà Virgilio, donandole l’immortalità.
Didone, dunque, diventa immortale solo per essere una donna e soprattutto una donna fragile dopo essere stata una Regina gloriosa.
Didone, dunque, è un personaggio che diventa immortale grazie alla propria sconfitta. Ma perché?
Perché Vigilio era romano e Didone, invece, cartaginese. E perché Roma e Cartagine erano eterne nemiche.
Ma anche perché la morte di questa Regina doveva essere il primo segno della vittoria dei romani sui cartaginesi. E non doveva essere la “storia” dello scontro fra le due Potenze, bensì la “leggenda d’amore” fra due personaggi mitici finita in dramma.
Doveva essere così, perché l’EPILOGO della “Leggenda” di Didone, doveva costituire il PROLOGO della “Storia” di Roma.
BOUDICCA - Regina-Guerriera
Boudicca: dal celtico “Bouda” che significa Vittoria.
Di questa straordinaria figura di donna, elevata in Inghilterra a simbolo dell’ardimento femminile, fu Tacito a parlare per primo nei suoi “Annali”.
Riportando i costumi delle popolazioni barbariche che i romani avevano assoggettato, il grande storico, che non nascondeva una certa ammirazione per la morigeratezza di quei costumi, ebbe ad esprimersi così:
“… sanno scegliersi i capi migliori e obbediscono al loro Comandante… hanno fiducia nel Comandante più che nella massa dell’esercito.”
Questo, forse, spiega l’ascendente di questa straordinaria donna, eletta Comandante, sulla propria gente.
Boudicca era la Regina degli Iceni, una popolazione della Britannia e il suo nome non avrebbe ispirato poeti e scrittori, pittori e cineasti, se quanto segue non fosse avvenuto.
Prosutago, re degli Iceni, uomo avveduto e lungimirante, viveva in pace con Roma.
Unico difetto agli occhi dei conquistatori romani, la sua ingente ricchezza.
Presago di quanto poteva accadere (e sarebbe accaduto) e nella speranza di allontanare mire e sciagure dal Regno e dalla sua famiglia, il Re compì un atto che ne decretò, invece, la rovina: nominò erede delle sue ricchezze le due giovanissime figlie e la persona di Cesare.
Alla sua morte il Regno fu annesso all’Impero e ridotto a Provincia di Roma; i beni furono confiscati e gli schiavi portati via.
Centurioni e soldati piombarono sulla casa del Sovrano come famelici avvoltoi, depredandola e devastandola come se fosse una preda di guerra.
Boudicca, donna energica e coraggiosa, dal carattere fiero e battagliero, si oppose a tanta devastazione, prese le armi e si scagliò contro gli aggressori.
La reazione dei legionari fu violentissima. Sopraffatta e disarmata, la Regina degli Iceni fu sottoposta ad inaudita umiliazione davanti alla sua gente: denudata, fu selvaggiamente frustata, mentre le due giovanissime figlie venivano stuprate.
Non solo Boudicca e le sue figlie subirono oltraggio, ma molte delle famiglie dei notabili iceni, i quali si unirono tutti intorno alla Regina e prepararono una rivolta in cui trascinarono altre popolazioni.
Tra queste, vi era la tribù dei Trinovanti, scacciati dalle loro terre, a Camulodunum, per far posto ai legionari veterani ivi sistemati dall’imperatore.
Qui, l’imperatore Claudio aveva fatto perfino innalzare un Tempio per il proprio culto.
La rivolta ebbe inizio proprio a seguito di un evento accaduto nel Tempio: la statua della Vittoria era caduta all’indietro.
Il fatto fu considerato un evento prodigioso sia dalle popolazioni indigene che dai romani, soprattutto le donne. Non dai soldati, né dal Procuratore il quale, alle richieste d’aiuto, si limitò ad inviare pochi soldati e male armati.
Alla guida dei rivoltosi, Boudicca sferrò un primo attacco al presidio, arrecando morte e distruzione; in un secondo attacco, il Tempio, in cui si erano rifugiati gli ultimi superstiti, cadde dopo due soli giorni di resistenza.
Ebbe inizio la leggenda di Boudicca, regina-guerriera.
Alta, statuaria, i lunghissimi capelli rossi e sciolti sulle spalle, gli occhi fiammeggianti di furore, Boudicca incuteva davvero terrore. Indossava sempre una tunica ed un mantello trattenuto da una borchia ed una spessa catena d’oro al collo; in mano reggeva l’inseparabile ed infallibile lancia.
Seguirono epiche battaglie che la videro sempre vincitrice: a Londinium (l’odierna Londra), a Verulanio e ad altre località, dove apportò sempre massacri e devastazioni ed in cui perirono, si disse, almeno settantamila persone, poiché l’ordine era di non fare prigionieri.
Il Legato, Paolino Svetonio, riuscì finalmente ad organizzare l’offensiva.
I due schieramenti si trovarono di fronte in una zona impervia della Britannia: i Romani, compatti e forti di fanteria e cavalleria e i Britanni, un po’ sparpagliati e con le famiglie che si erano portati dietro. Sui carri, dal bordo del campo, le donne assistevano alla battaglia; tra loro c’erano anche le due giovanissime figlie della Regina.
La battaglia fu violenta, ma l’esito scontato: a contrastare la rivolta, era stata inviata la XIV Legione Romana, la più forte e agguerrita. L’affiancavano i migliori combattenti dell’Impero, i quali non si astennero dal massacrare neppure le donne.
I morti furono più di ottantamila.
Sopraffatta così pesantemente, la regina Boudicca si suicidò con il veleno.
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Boudicca: dal celtico “Bouda” che significa Vittoria.
Di questa straordinaria figura di donna, elevata in Inghilterra a simbolo dell’ardimento femminile, fu Tacito a parlare per primo nei suoi “Annali”.
Riportando i costumi delle popolazioni barbariche che i romani avevano assoggettato, il grande storico, che non nascondeva una certa ammirazione per la morigeratezza di quei costumi, ebbe ad esprimersi così:
“… sanno scegliersi i capi migliori e obbediscono al loro Comandante… hanno fiducia nel Comandante più che nella massa dell’esercito.”
Questo, forse, spiega l’ascendente di questa straordinaria donna, eletta Comandante, sulla propria gente.
Boudicca era la Regina degli Iceni, una popolazione della Britannia e il suo nome non avrebbe ispirato poeti e scrittori, pittori e cineasti, se quanto segue non fosse avvenuto.
Prosutago, re degli Iceni, uomo avveduto e lungimirante, viveva in pace con Roma.
Unico difetto agli occhi dei conquistatori romani, la sua ingente ricchezza.
Presago di quanto poteva accadere (e sarebbe accaduto) e nella speranza di allontanare mire e sciagure dal Regno e dalla sua famiglia, il Re compì un atto che ne decretò, invece, la rovina: nominò erede delle sue ricchezze le due giovanissime figlie e la persona di Cesare.
Alla sua morte il Regno fu annesso all’Impero e ridotto a Provincia di Roma; i beni furono confiscati e gli schiavi portati via.
Centurioni e soldati piombarono sulla casa del Sovrano come famelici avvoltoi, depredandola e devastandola come se fosse una preda di guerra.
Boudicca, donna energica e coraggiosa, dal carattere fiero e battagliero, si oppose a tanta devastazione, prese le armi e si scagliò contro gli aggressori.
La reazione dei legionari fu violentissima. Sopraffatta e disarmata, la Regina degli Iceni fu sottoposta ad inaudita umiliazione davanti alla sua gente: denudata, fu selvaggiamente frustata, mentre le due giovanissime figlie venivano stuprate.
Non solo Boudicca e le sue figlie subirono oltraggio, ma molte delle famiglie dei notabili iceni, i quali si unirono tutti intorno alla Regina e prepararono una rivolta in cui trascinarono altre popolazioni.
Tra queste, vi era la tribù dei Trinovanti, scacciati dalle loro terre, a Camulodunum, per far posto ai legionari veterani ivi sistemati dall’imperatore.
Qui, l’imperatore Claudio aveva fatto perfino innalzare un Tempio per il proprio culto.
La rivolta ebbe inizio proprio a seguito di un evento accaduto nel Tempio: la statua della Vittoria era caduta all’indietro.
Il fatto fu considerato un evento prodigioso sia dalle popolazioni indigene che dai romani, soprattutto le donne. Non dai soldati, né dal Procuratore il quale, alle richieste d’aiuto, si limitò ad inviare pochi soldati e male armati.
Alla guida dei rivoltosi, Boudicca sferrò un primo attacco al presidio, arrecando morte e distruzione; in un secondo attacco, il Tempio, in cui si erano rifugiati gli ultimi superstiti, cadde dopo due soli giorni di resistenza.
Ebbe inizio la leggenda di Boudicca, regina-guerriera.
Alta, statuaria, i lunghissimi capelli rossi e sciolti sulle spalle, gli occhi fiammeggianti di furore, Boudicca incuteva davvero terrore. Indossava sempre una tunica ed un mantello trattenuto da una borchia ed una spessa catena d’oro al collo; in mano reggeva l’inseparabile ed infallibile lancia.
Seguirono epiche battaglie che la videro sempre vincitrice: a Londinium (l’odierna Londra), a Verulanio e ad altre località, dove apportò sempre massacri e devastazioni ed in cui perirono, si disse, almeno settantamila persone, poiché l’ordine era di non fare prigionieri.
Il Legato, Paolino Svetonio, riuscì finalmente ad organizzare l’offensiva.
I due schieramenti si trovarono di fronte in una zona impervia della Britannia: i Romani, compatti e forti di fanteria e cavalleria e i Britanni, un po’ sparpagliati e con le famiglie che si erano portati dietro. Sui carri, dal bordo del campo, le donne assistevano alla battaglia; tra loro c’erano anche le due giovanissime figlie della Regina.
La battaglia fu violenta, ma l’esito scontato: a contrastare la rivolta, era stata inviata la XIV Legione Romana, la più forte e agguerrita. L’affiancavano i migliori combattenti dell’Impero, i quali non si astennero dal massacrare neppure le donne.
I morti furono più di ottantamila.
Sopraffatta così pesantemente, la regina Boudicca si suicidò con il veleno.
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ATALIA - Regina Sanguinaria
Una delle figure femminili più cupe della Bibbia e della Storia è senza dubbio Atalia, sposa di Joram, re di Giudea e figlia di Akab o, forse, di Omri, padre di questi, re di Israele.
E' da notare che la Bibbia non ha finalità storiografiche e manca, perciò, di stretto rapporto tra narrazione e storIa, così da generare variazioni e imprecisioni come questa.
Il regno di Joram iniziò con un vero bagno di sangue, egli fece trucidare tutti i fratelli per eliminare possibili pretendenti al trono.
Contro la coppia si scaglieranno gli strali del profeta Elia, per la loro condotta idolatra e per l'introduzione di riti pagani.
Ancora sarebbe da far notare che il Profeta era già morto, ma questo non fa che confermare quanto già detto sul rapporto Storia-Bibbia.
Rimasto, il Regno di Giudea, tragicamente vuoto con la morte di Joram e di suo figlio Acazia, ecco entrare in scena l'ambiziosa Regina la quale, come già aveva fatto il marito, fece il vuoto intorno al trono, facendo uccidere tutti i figli del Re, ossia, i suoi stessi nipoti.
Soltanto uno, il piccolo Joas, dei figli di suo figlio, riuscì a scampare al massacro.
Josabeat, una delle figlie di Acazia, sposa del sacerdote Ioiada, riuscì a portarlo via dal luogo della strage ed a nasconderlo per sei anni all'interno del Tempio.
Il popolo, però, era molto scontento della sua Regina e non fu difficile a Joiada, il cui nome significa "JHWH sa", scatenare una rivolta contro di lei.
Joiada organizzò la rivolta in ogni particolare e infine presentò il ragazzo al popolo radunato intorno al Tempio; gli pose sul capo la corona e gli affidò le insegne del comando e infine lo proclamò Re al grido di: "Viva il Re"
Nell'udire le grida di acclamazione del popolo, Atalia corse al Tempio, urlò al tradimento, ma non riuscì a scampare alla condanna a morte che fu eseguita, a fil di spada, fuori del Tempio.
Una delle figure femminili più cupe della Bibbia e della Storia è senza dubbio Atalia, sposa di Joram, re di Giudea e figlia di Akab o, forse, di Omri, padre di questi, re di Israele.
E' da notare che la Bibbia non ha finalità storiografiche e manca, perciò, di stretto rapporto tra narrazione e storIa, così da generare variazioni e imprecisioni come questa.
Il regno di Joram iniziò con un vero bagno di sangue, egli fece trucidare tutti i fratelli per eliminare possibili pretendenti al trono.
Contro la coppia si scaglieranno gli strali del profeta Elia, per la loro condotta idolatra e per l'introduzione di riti pagani.
Ancora sarebbe da far notare che il Profeta era già morto, ma questo non fa che confermare quanto già detto sul rapporto Storia-Bibbia.
Rimasto, il Regno di Giudea, tragicamente vuoto con la morte di Joram e di suo figlio Acazia, ecco entrare in scena l'ambiziosa Regina la quale, come già aveva fatto il marito, fece il vuoto intorno al trono, facendo uccidere tutti i figli del Re, ossia, i suoi stessi nipoti.
Soltanto uno, il piccolo Joas, dei figli di suo figlio, riuscì a scampare al massacro.
Josabeat, una delle figlie di Acazia, sposa del sacerdote Ioiada, riuscì a portarlo via dal luogo della strage ed a nasconderlo per sei anni all'interno del Tempio.
Il popolo, però, era molto scontento della sua Regina e non fu difficile a Joiada, il cui nome significa "JHWH sa", scatenare una rivolta contro di lei.
Joiada organizzò la rivolta in ogni particolare e infine presentò il ragazzo al popolo radunato intorno al Tempio; gli pose sul capo la corona e gli affidò le insegne del comando e infine lo proclamò Re al grido di: "Viva il Re"
Nell'udire le grida di acclamazione del popolo, Atalia corse al Tempio, urlò al tradimento, ma non riuscì a scampare alla condanna a morte che fu eseguita, a fil di spada, fuori del Tempio.
PENELOPE... fu davvero così casta e fedele?
Basta un solo nome per riempire un volume sulla fedeltà della donna:
Penelope
La figura di Penelope, casta e fedele, che aspetta trepidante il ritorno dello sposo vagabondo per il mondo con la scusa della guerra, che imbroglia i pretendenti con una tela interminabile, piace molto agli uomini.
Li rassicura.
Piace molto questa figura di donna in eterna attesa: è rassicurante. Viene presa come esempio anche in culture assai, ma proprio assai, posteriori.
Perfino oggi.
Ma era davvero così casta e fedele, la cara Penelope?
L’epoca in cui visse era quella di un Matriarcato in declino e un nascente Patriarcato. Lo testimoniano le vicende legate alle sue nozze con Odisseo, meglio conosciuto come Ulisse.
Questi conquistò la sua mano all’antica maniera matriarcale, vincendo, cioè, una gara di corsa.
(secondo altre versioni, di tiro con l’arco)
Penelope era figlia di Icario, re di Sparta, e della ninfa Peribea e, secondo le antiche usanze, era la sposa che accoglieva lo sposo nella sua casa e non il contrario. (Menelao era diventato Re di Sparta per averne sposato la principessa ereditaria, Elena).
Ulisse, invece, infranse le regole e si portò via la sposa contro la volontà del padre di lei.
Re Icario, infatti, li fece subito inseguire e Ulisse costrinse Penelope a scegliere fra lui e suo padre.
Penelope scelse Odisseo: senza una parola si calò il velo nuziale sul volto e lo seguì ad Itaca, lasciando la casa paterna e la terra di Sparta.
La figura di Penelope, in realtà, non è solamente emblematica, ma anche un po’ enigmatica, per quello che fu in seguito il suo comportamento.
Omero (ma sarà stato proprio Omero a scrivere l’Odissea? Ormai sono in molti a nutrire dei dubbi) ci parla di lei in tono brillante, bucolico ed un po’ ingenuo. Ben diverso dal tono ruvido e tagliente che si riscontra nell’Iliade, la cui paternità di Omero è indiscutibilmente accettata.
Omero ci lascia con Penelope ed Ulisse riuniti dopo venti anni di separazione: dieci di guerra a Troia e dieci di peripezie attraverso il Mediterraneo.
Penelope, però, si rivela donna prudente e diffidente, oltre che paziente e fedele: prima di concedersi al marito, vuole certezze e per questo lo sottopone alla prova del talamo nuziale e della sua posizione nella loro casa. Dopo, lo premierà generandogli un altro figlio: Polipartide; il primo era Telemaco, poco più che ventenne al ritorno a casa del padre.
Penelope è anche una donna forte e di infinite risorse. Lo ha dimostrato tenendo a freno i suoi pretendenti con vari espedienti prima del ritorno di Ulisse e lo dimostrerà pure dopo la morte di questi.
Sia Ulisse che suo figlio Telemaco, infatti, subito dopo la strage dei Proci (i pretendenti) erano stati esiliati.
Ulisse partì per la Tesprozia, per espiare la sua colpa; qui, però, sposò la regina Callidice che gli diede un altro figlio, Polirete.
Telemaco, invece, raggiunse Cefallenia, poiché, secondo un oracolo, Ulisse sarebbe morto per mano di suo figlio.
Così fu!
L’eroe fu ucciso proprio da uno dei suoi figli, ma non era Telemaco, bensì Telegono, il figlio avuto dalla maga Circe durante il viaggio di ritorno da Troia.
Telegono, che dal padre aveva ereditato lo spirito d’avventura, andava scorrazzando per i mari e finì per raggiungere Itaca.
Ulisse si preparò a respingere l’attacco, ma Telegono lo uccise.
Proprio come aveva predetto l’oracolo: in riva al mare e con l’aculeo di una razza, un aculeo di razza infilato sulla punta della lancia di Telegono.
E ancora una volta Penelope ci sorprende: trascorso l’anno di lutto previsto dalla tradizione, la Regina di Itaca sposa Telegono… proprio così! Sposa l’uccisore di suo marito, figlio della rivale, la maga Circe.
E non è tutto. Raggiunta l’isola di Circe, madre del fratellastro Telegono, Telemaco, a sua volta, impalma la rivale di sua madre.
Edificante!
Penelope
La figura di Penelope, casta e fedele, che aspetta trepidante il ritorno dello sposo vagabondo per il mondo con la scusa della guerra, che imbroglia i pretendenti con una tela interminabile, piace molto agli uomini.
Li rassicura.
Piace molto questa figura di donna in eterna attesa: è rassicurante. Viene presa come esempio anche in culture assai, ma proprio assai, posteriori.
Perfino oggi.
Ma era davvero così casta e fedele, la cara Penelope?
L’epoca in cui visse era quella di un Matriarcato in declino e un nascente Patriarcato. Lo testimoniano le vicende legate alle sue nozze con Odisseo, meglio conosciuto come Ulisse.
Questi conquistò la sua mano all’antica maniera matriarcale, vincendo, cioè, una gara di corsa.
(secondo altre versioni, di tiro con l’arco)
Penelope era figlia di Icario, re di Sparta, e della ninfa Peribea e, secondo le antiche usanze, era la sposa che accoglieva lo sposo nella sua casa e non il contrario. (Menelao era diventato Re di Sparta per averne sposato la principessa ereditaria, Elena).
Ulisse, invece, infranse le regole e si portò via la sposa contro la volontà del padre di lei.
Re Icario, infatti, li fece subito inseguire e Ulisse costrinse Penelope a scegliere fra lui e suo padre.
Penelope scelse Odisseo: senza una parola si calò il velo nuziale sul volto e lo seguì ad Itaca, lasciando la casa paterna e la terra di Sparta.
La figura di Penelope, in realtà, non è solamente emblematica, ma anche un po’ enigmatica, per quello che fu in seguito il suo comportamento.
Omero (ma sarà stato proprio Omero a scrivere l’Odissea? Ormai sono in molti a nutrire dei dubbi) ci parla di lei in tono brillante, bucolico ed un po’ ingenuo. Ben diverso dal tono ruvido e tagliente che si riscontra nell’Iliade, la cui paternità di Omero è indiscutibilmente accettata.
Omero ci lascia con Penelope ed Ulisse riuniti dopo venti anni di separazione: dieci di guerra a Troia e dieci di peripezie attraverso il Mediterraneo.
Penelope, però, si rivela donna prudente e diffidente, oltre che paziente e fedele: prima di concedersi al marito, vuole certezze e per questo lo sottopone alla prova del talamo nuziale e della sua posizione nella loro casa. Dopo, lo premierà generandogli un altro figlio: Polipartide; il primo era Telemaco, poco più che ventenne al ritorno a casa del padre.
Penelope è anche una donna forte e di infinite risorse. Lo ha dimostrato tenendo a freno i suoi pretendenti con vari espedienti prima del ritorno di Ulisse e lo dimostrerà pure dopo la morte di questi.
Sia Ulisse che suo figlio Telemaco, infatti, subito dopo la strage dei Proci (i pretendenti) erano stati esiliati.
Ulisse partì per la Tesprozia, per espiare la sua colpa; qui, però, sposò la regina Callidice che gli diede un altro figlio, Polirete.
Telemaco, invece, raggiunse Cefallenia, poiché, secondo un oracolo, Ulisse sarebbe morto per mano di suo figlio.
Così fu!
L’eroe fu ucciso proprio da uno dei suoi figli, ma non era Telemaco, bensì Telegono, il figlio avuto dalla maga Circe durante il viaggio di ritorno da Troia.
Telegono, che dal padre aveva ereditato lo spirito d’avventura, andava scorrazzando per i mari e finì per raggiungere Itaca.
Ulisse si preparò a respingere l’attacco, ma Telegono lo uccise.
Proprio come aveva predetto l’oracolo: in riva al mare e con l’aculeo di una razza, un aculeo di razza infilato sulla punta della lancia di Telegono.
E ancora una volta Penelope ci sorprende: trascorso l’anno di lutto previsto dalla tradizione, la Regina di Itaca sposa Telegono… proprio così! Sposa l’uccisore di suo marito, figlio della rivale, la maga Circe.
E non è tutto. Raggiunta l’isola di Circe, madre del fratellastro Telegono, Telemaco, a sua volta, impalma la rivale di sua madre.
Edificante!
CLEOPATRA - l'ultima Regina
Di questo personaggio, appartenente alla Dinastia dei Tolomei, di origine greca, si è ormai detto tutto e forse non sempre a proposito.
Tralasceremo la sua celebre storia d’amore con Marco Antonio e il tentativo di seduzione nei confronti di Ottaviano Augusto, né parleremo del suo matrimonio con Giulio Cesare e del suo arrivo a Roma, cinematograficamente trionfale, ma in realtà osteggiato da tutti, essendo, i fatti, assai noti.
Non parleremo nemmeno della sua morte: aspide o vipera? Di qualunque veleno si trattò, certo è che pose fine alla sua vita.
Parleremo della sua fanciullezza e giovinezza.
Altre Regine con il suo nome l’hanno preceduta: lei era Cleopatra VI, nata ad Alessandria d’Egitto nel 69 a.C., da Tolomeo XII.
Fu l’ultima Regina di quella Dinastia; regnò dal 51 al 30 a.C., anno in cui morì.
Non era particolarmente bella, ma possedeva un fascino assai particolare; era astuta e ambiziosa ed era dotata di una spiccata personalità.
Aveva 18 anni quando morì il padre, lasciando il Regno al fratello, Tolomeo XIII, di soli 10 anni ed a lei il ruolo di Consorte Reale.
Roma, di cui l’Egitto era una Provincia, aveva nominato Pompeo come tutore del ragazzo, il quale godeva anche della protezione del potente eunuco Potino.
Ansiosa di agguantare il potere, Cleopatra fuggì in Siria, dove riuscì ad organizzare un proprio esercito.
Molto colta (parlava perfettamente cinque o sei lingue) e con particolari doti politiche e diplomatiche, cercò di volgere a proprio vantaggio le vicende di Roma, dove era in corso una guerra civile, scoppiata tra Pompeo e Giulio Cesare.
Potino, per compiacere Cesare, aveva fatto uccidere Pompeo e fu proprio quell’episodio che spinse Cleopatra ad osare ciò che nessuno avrebbe osato mai: avvolta in un tappeto, (una storia che ormai tutti conoscono bene) si presentò al cospetto di Cesare, che ne restò davvero impressionato. Fra i due nacque la passione e Cesare, per compiacere la “Sua Regina” fece uccidere Tolomeo, lasciando a lei il potere assoluto.
La richiamò a Roma, ma… basta vedere il celeberrimo film con la Taylor e Burton, (con accenti hollywoodiani) per conoscere il seguito della storia.
Morto Cesare, Cleopatra cadde fra le braccia di Marco Antonio, suicidatosi questi, tentò di sedurre Ottaviano Augusto e alla fine, vistasi perduta, pose fine ai propri giorni con il veleno di un serpente.
TEODORA la Basilissa
Sulla sua nascita non si sa nulla di preciso, neppure il luogo: la data, fissata nell’anno 500, è del tutto arbitraria.
Qualche storico le ha assegnato come patria l’isola di Cipro, qualcun altro la Siria; di sicuro si sa soltanto che è nata tra i carrozzoni di un circo: il padre, guardiano di orsi e la madre, figurante di circo.
Era la secondogenita di tre sorelle.
Una figura leggendaria, questa donna, che ha avuto estimatori e denigratori fra quanti, soprattutto storici e biografi, hanno voluto stendere su di lei una favolosa quanto fantasiosa biografia.
L’essere nata sotto la tenda di un circo, ritenuto a quei tempi luogo di corruzione e vizio, ha finito per marchiarla frettolosamente e senza possibilità di appello, come donna viziosa e lussuriosa.
Teodora non era certo una donna virtuosa, ma un più attento studio sulla sua personalità e attitudine, ci restituiscono un ritratto po’ meno severo.
Suo maggior denigratore fu senza dubbio lo storico Procopio che, nella sua “Storia Segreta”, le attribuisce ogni sorta di vizio, perversione e delitto ed è proprio con questo marchio che il ritratto di Teodora è arrivato fino a noi.
Soltanto oggi, dopo attenta riflessione ed approfondito studio degli eventi storici in cui è vissuta, si è scoperto quanta influenza, quasi sempre positiva, questa donna abbia avuto sulle sorti dell’Impero d’Oriente.
Di una cosa si è certi: danzatrice o imperatrice, Teodora non fu mai una semplice comparsa.
Perfino nell’esordio, le due “carriere”, furono ugualmente folgoranti.
Morto il padre, la madre la “scaraventò” nella pista di un circo assieme alle sorelle, Comito ed Anastasia, a suscitare la pietà del pubblico; un pubblico diviso in due fazioni: i Verdi e gli Azzurri.
Sostenuta dagli Azzurri e osteggiata dai Verdi, appena ne ebbe l’occasione, Teodora mostrò, nei confronti di costoro, quanto vendicativo fosse il suo carattere.
Cominciò proprio in quella pista la carriera di colei che di lì a pochi anni sarebbe diventata la più celebrata stella dello spettacolo. (una Madonna dei nostri giorni.)
A diciotto anni era la Regina indiscussa dell’ Ippodromo di Bisanzio, (l’equivalente del Colosseo di Roma): uno dei due strumenti che gli Imperatori usavano per soddisfare il popolo; l’altro era il grano. Pane e Circo: Panem et Circenses.
Teodora ne era l’attrazione principale: bellissima, conturbante, intrigante, intelligente ed assolutamente priva di pudore.
La sua fama era quella di donna dissoluta e libertina (anche per i suoi tempi) e non deve stupire che le cosiddette persone per bene evitassero perfino di incontrarla per strada.
Nonostante questo, Teodora si sposò per ben due volte, prima ancora di compiere venti anni.
Il secondo matrimonio la portò ad Alessandria d’Egitto ed alla scoperta di una Cultura ed una Filosofia che ebbero su di lei una incredibile e straordinaria influenza, tanto da accendere in lei un grande mistico fervore.
Se lo storico Procopio aveva fatto di lei il simbolo del vizio e della perversione, qualcun altro pensò non solo a riabilitarla, ma addirittura ad elevarla spiritualmente: Diehl che parla di lei come di una donna diventata casta e morigerata.
Questo anelito di misticismo, però, non durò a lungo.
Teodora era una donna innamorata della vita e dell’amore. Si era sempre presa cura della propria bellezza, che l’aveva resa musa ispiratrice della sessualità maschile e desiderava continuare a farlo.
Non tardò, dunque, ad avvertire un certo disagio religioso: non poteva esserci molto in comune tra una come lei ed una Religione che tuonava contro i piaceri della carne e ne mortificava gli slanci naturali con rinunce e penitenze.
Teodora lasciò Alessandria per Antiochia e strada facendo finì per riprendere (per voglia o per necessità) la vecchia attività.
Fu in quel periodo che avvenne l’incontro con Giustiniano, che all’epoca non era ancora Imperatore.
A presentare i due fu Macedonia, una famosa danzatrice amica di Teodora.
Fu il classico colpo di fulmine.
Il giovane Giustiniano manifestò subito l’ntenzione di impalmarla, ma la conturbante Teodora trovò nell’imperatrice Eufemia la più grande oppositrice a quelle nozze.
Eufemia, assai gelosa del suo fascino e della sua bellezza, era anche una donna meschina e non tollerava che la grande fortuna capitata a lei, potesse arridere anche ad un’altra donna.
Sì, perché Eufemia proveniva dal più infimo strato sociale: era solamente una schiava. Era la schiava prediletta di Giustino, l’Imperatore, che aveva finito per invaghirsene e sposarla, elevandola al rango di Imperatrice.
Teodora, però, oltre che bella, intelligente ed intrignte, si rivelò essere anche fortunata: Eufemia morì l’anno successivo.
Correva l’anno 523 dell’era cristiana.
Aggirato ogni ostacolo burocratico con emanazione di Leggi nuove o abrogazione di quelle vecchie, Teodora e Giustiniano riuscirono finalmente a sposarsi.
Associato al trono allo zio Giustino, Giustiniano divenne Imperatore d’Oriente e Teodora, la sua Imperatrice.
Le nozze furono celebrate in pompa magna nella cattedrale di Bisanzio alla presenza di un popolo festante che tributò all’Imperatrice lo stesso entusiasmo riconosciuto alla danzatrice.
Un trionfo totale per Teodora e ancora di più!
Era la rivincita della donna: Giustiniano, infatti, seguì sempre e comunque i consigli dell’Imperatrice, a cominciare dalle Leggi a favore delle donne: donne maltrattate in famiglia, malate e con pochi mezzi di sussistenza, ma soprattutto, donne dei bassifondi.
Nessuno, meglio dell’Imperatrice di Bisanzio, poteva conoscere le miserevoli condizioni di vita delle donne rinchiuse nelle “case di tolleranza” che, naturalmente, furono tutte chiuse.
Politiche sociali, intrighi di corte (assai numerosi), finissimo acume, Teodora mancò solo in una “missione”: dare un erede all’Imperatore.
Di figli ne aveva avuti. Due o forse tre, ma non era di certo un bastardo che Giustiniano voleva far sedere sul trono dell’Impero d’Oriente come suo successore.
Teodora era diventata sterile; forse la vita vissuta nel vizio, forse i numerosi aborti cui si era sottoposta, forse l’età.
Medici ed ostetrici fatti arrivare da ogni angolo dell’Impero e anche da più lontano, non riuscirono ad esserle d’aiuto.
Ricorse, a quel punto, alla magia. Sperimentò le più stravaganti quanto inutili pratiche magiche, fece arricchire fattucchiere e maghi, ma non raggiunse lo scopo.
C’era ancora una via. L’ultima. Ed era la Fede: voti e preghiere.
Allo scopo fece innalzare cattedrali, chiese e conventi, ma il Cielo continuò a tacere e restare indifferente.
Il 29 giugno del 548, Teodora la Basilissa moriva con questo unico, grande rimpianto e con un interrogativo per i posteri: fu fedele all’innamoratissimo marito?
Tutti gli storici concordano nel ritenere che prima di diventare Imperatrice, la vita di Teodora sia stata dissoluta e viziosa, ma si dividono sulla sua condotta dopo che ebbe indossato la porpora imperiale.
Possiamo affermare, però, senza dubbio di smentita, che il ritratto di donna dal sesso insaziabile, peccatrice e dissoluta, che ne fece il drammaturgo Sardon, non le rende giustizia.
Qualche storico le ha assegnato come patria l’isola di Cipro, qualcun altro la Siria; di sicuro si sa soltanto che è nata tra i carrozzoni di un circo: il padre, guardiano di orsi e la madre, figurante di circo.
Era la secondogenita di tre sorelle.
Una figura leggendaria, questa donna, che ha avuto estimatori e denigratori fra quanti, soprattutto storici e biografi, hanno voluto stendere su di lei una favolosa quanto fantasiosa biografia.
L’essere nata sotto la tenda di un circo, ritenuto a quei tempi luogo di corruzione e vizio, ha finito per marchiarla frettolosamente e senza possibilità di appello, come donna viziosa e lussuriosa.
Teodora non era certo una donna virtuosa, ma un più attento studio sulla sua personalità e attitudine, ci restituiscono un ritratto po’ meno severo.
Suo maggior denigratore fu senza dubbio lo storico Procopio che, nella sua “Storia Segreta”, le attribuisce ogni sorta di vizio, perversione e delitto ed è proprio con questo marchio che il ritratto di Teodora è arrivato fino a noi.
Soltanto oggi, dopo attenta riflessione ed approfondito studio degli eventi storici in cui è vissuta, si è scoperto quanta influenza, quasi sempre positiva, questa donna abbia avuto sulle sorti dell’Impero d’Oriente.
Di una cosa si è certi: danzatrice o imperatrice, Teodora non fu mai una semplice comparsa.
Perfino nell’esordio, le due “carriere”, furono ugualmente folgoranti.
Morto il padre, la madre la “scaraventò” nella pista di un circo assieme alle sorelle, Comito ed Anastasia, a suscitare la pietà del pubblico; un pubblico diviso in due fazioni: i Verdi e gli Azzurri.
Sostenuta dagli Azzurri e osteggiata dai Verdi, appena ne ebbe l’occasione, Teodora mostrò, nei confronti di costoro, quanto vendicativo fosse il suo carattere.
Cominciò proprio in quella pista la carriera di colei che di lì a pochi anni sarebbe diventata la più celebrata stella dello spettacolo. (una Madonna dei nostri giorni.)
A diciotto anni era la Regina indiscussa dell’ Ippodromo di Bisanzio, (l’equivalente del Colosseo di Roma): uno dei due strumenti che gli Imperatori usavano per soddisfare il popolo; l’altro era il grano. Pane e Circo: Panem et Circenses.
Teodora ne era l’attrazione principale: bellissima, conturbante, intrigante, intelligente ed assolutamente priva di pudore.
La sua fama era quella di donna dissoluta e libertina (anche per i suoi tempi) e non deve stupire che le cosiddette persone per bene evitassero perfino di incontrarla per strada.
Nonostante questo, Teodora si sposò per ben due volte, prima ancora di compiere venti anni.
Il secondo matrimonio la portò ad Alessandria d’Egitto ed alla scoperta di una Cultura ed una Filosofia che ebbero su di lei una incredibile e straordinaria influenza, tanto da accendere in lei un grande mistico fervore.
Se lo storico Procopio aveva fatto di lei il simbolo del vizio e della perversione, qualcun altro pensò non solo a riabilitarla, ma addirittura ad elevarla spiritualmente: Diehl che parla di lei come di una donna diventata casta e morigerata.
Questo anelito di misticismo, però, non durò a lungo.
Teodora era una donna innamorata della vita e dell’amore. Si era sempre presa cura della propria bellezza, che l’aveva resa musa ispiratrice della sessualità maschile e desiderava continuare a farlo.
Non tardò, dunque, ad avvertire un certo disagio religioso: non poteva esserci molto in comune tra una come lei ed una Religione che tuonava contro i piaceri della carne e ne mortificava gli slanci naturali con rinunce e penitenze.
Teodora lasciò Alessandria per Antiochia e strada facendo finì per riprendere (per voglia o per necessità) la vecchia attività.
Fu in quel periodo che avvenne l’incontro con Giustiniano, che all’epoca non era ancora Imperatore.
A presentare i due fu Macedonia, una famosa danzatrice amica di Teodora.
Fu il classico colpo di fulmine.
Il giovane Giustiniano manifestò subito l’ntenzione di impalmarla, ma la conturbante Teodora trovò nell’imperatrice Eufemia la più grande oppositrice a quelle nozze.
Eufemia, assai gelosa del suo fascino e della sua bellezza, era anche una donna meschina e non tollerava che la grande fortuna capitata a lei, potesse arridere anche ad un’altra donna.
Sì, perché Eufemia proveniva dal più infimo strato sociale: era solamente una schiava. Era la schiava prediletta di Giustino, l’Imperatore, che aveva finito per invaghirsene e sposarla, elevandola al rango di Imperatrice.
Teodora, però, oltre che bella, intelligente ed intrignte, si rivelò essere anche fortunata: Eufemia morì l’anno successivo.
Correva l’anno 523 dell’era cristiana.
Aggirato ogni ostacolo burocratico con emanazione di Leggi nuove o abrogazione di quelle vecchie, Teodora e Giustiniano riuscirono finalmente a sposarsi.
Associato al trono allo zio Giustino, Giustiniano divenne Imperatore d’Oriente e Teodora, la sua Imperatrice.
Le nozze furono celebrate in pompa magna nella cattedrale di Bisanzio alla presenza di un popolo festante che tributò all’Imperatrice lo stesso entusiasmo riconosciuto alla danzatrice.
Un trionfo totale per Teodora e ancora di più!
Era la rivincita della donna: Giustiniano, infatti, seguì sempre e comunque i consigli dell’Imperatrice, a cominciare dalle Leggi a favore delle donne: donne maltrattate in famiglia, malate e con pochi mezzi di sussistenza, ma soprattutto, donne dei bassifondi.
Nessuno, meglio dell’Imperatrice di Bisanzio, poteva conoscere le miserevoli condizioni di vita delle donne rinchiuse nelle “case di tolleranza” che, naturalmente, furono tutte chiuse.
Politiche sociali, intrighi di corte (assai numerosi), finissimo acume, Teodora mancò solo in una “missione”: dare un erede all’Imperatore.
Di figli ne aveva avuti. Due o forse tre, ma non era di certo un bastardo che Giustiniano voleva far sedere sul trono dell’Impero d’Oriente come suo successore.
Teodora era diventata sterile; forse la vita vissuta nel vizio, forse i numerosi aborti cui si era sottoposta, forse l’età.
Medici ed ostetrici fatti arrivare da ogni angolo dell’Impero e anche da più lontano, non riuscirono ad esserle d’aiuto.
Ricorse, a quel punto, alla magia. Sperimentò le più stravaganti quanto inutili pratiche magiche, fece arricchire fattucchiere e maghi, ma non raggiunse lo scopo.
C’era ancora una via. L’ultima. Ed era la Fede: voti e preghiere.
Allo scopo fece innalzare cattedrali, chiese e conventi, ma il Cielo continuò a tacere e restare indifferente.
Il 29 giugno del 548, Teodora la Basilissa moriva con questo unico, grande rimpianto e con un interrogativo per i posteri: fu fedele all’innamoratissimo marito?
Tutti gli storici concordano nel ritenere che prima di diventare Imperatrice, la vita di Teodora sia stata dissoluta e viziosa, ma si dividono sulla sua condotta dopo che ebbe indossato la porpora imperiale.
Possiamo affermare, però, senza dubbio di smentita, che il ritratto di donna dal sesso insaziabile, peccatrice e dissoluta, che ne fece il drammaturgo Sardon, non le rende giustizia.
HUTHSEPSUTH - La Regina-Faraone
Huthsepsut - Regina-Faraone.
Le gesta di questa regina egizia, appartenente alla XVIII Dinastia, sono un capolavoro di astuzia, temperamento e capacità: una donna che oggi nessuno esiterebbe a definire emancipata.
Era figlia di Thutmosis I e della regina Amesh e fu fatta sposare al fratellastro Thutmosis II.
I due non ebbero figli maschi, ma solo due femmine, Thutmosis II, però, il suo erede, Thutmosis III, lo ebbe da una Sposa Secondaria, la regina Ese.
Alla morte di Thutmosis II, avvenute in circostanze non propriamente chiare, la regina Hutsepsut assunse la Reggenza del Paese, essendo Thutmosis III ancora troppo giovane, neppure decenne, per regnare.
Troppo poco, La Reggenza, per una donna come lei.
Huthsepsut era una donna intelligente, di grande carattere e assai ambiziosa. Era anche molto bella e possedeva un fascino irresistibile e grandi doti di diplomazia.
Sapeva leggere, scrivere, danzare e guerreggiare: accompagnava il padre nelle battute di caccia e, si dice, uccise il suo primo leone all’età di dieci anni.
Non si accontentò, dunque, del ruolo di Reggente e mise in scena uno di quegli intrighi di corte che solo una mente potenzialmente astuta ed audace poteva concepire.
Huthsepsut aveva creato intorno a sé una corte di funzionari fedelissimi, primo fra tutti, l’architetto Senmut, suo amante e, forse, padre di una delle sue figlie. Godeva anche del sostegno di buona parte del Collegio Sacerdotale e di quello delle più alte gerarchie dell’esercito: tutti pronti a reggerle il gioco.
Anche il principe erede aveva i suoi sostenitori, soprattutto nel corpo sacerdotale di Karnak, cui il faraone Thutmosis II aveva preferito affidarlo per tenerlo lontano dalle ambizioni della Regina, e che, inspiegabilmente, si astennero da qualunque azione.
La Regina aveva già raggiunto l’apice della sua potenza, ma sentiva il bisogno di legittimarla e di legittimare la decisione di costruire il “Milione dei Milioni di Anni”, il suo Complesso Funerario che tutti, ancora oggi, possiamo ammirare a Deir-el-Bahri.
Quale fu questo colpo di scena? Questo “miracolo”, come fu definito dai suoi seguaci?
Stava, un mattino, officiando in vesti di Sacerdote Supremo, nel Tempio di Karnak, quando, tra fulmini e tuoni e saette, il dio Ammon fece sentire la sua voce attraverso il naos (tabernacolo in cui era l’effigie divina) e la proclamò Figlia-Sua e Signora-delle-Due-Terre (Alto e Basso Egitto).
“Kem-hut-Ra (Colei che regna su Kem col favore di Ra) sarà il tuo nome – disse pressappoco la voce del Dio (probabilmente quella di un sacerdote che la sosteneva nel gioco) - Io mi compiacerò in te.”
Kem era un altro nome con cui si designava l’Egitto.
Da quel giorno la Regina, non più Reggente e con il titolo di Regina-Faraone, si mostrò in pubblico in abiti maschili e con la barba posticcia dei Faraoni.
Era già accaduto in passato che Regine avessero usurpato il trono, ma l’avevano fatto conservando sempre atteggiamenti femminili. Era la prima volta che una Regina nelle iscrizioni si faceva nominare al maschile.
Le statue la rappresentavano quasi sempre con shendit (gonnellino plissettato) e copricapo da Re: la nemesh (copricapo triangolare a righe) e il pshent (casco blu da combattimento).
I testi che fece incidere sulle pareti e i pilastri del Tempio Funerario raccontano tutta la storia.
Parlano della sua nascita divina, mettendo in bocca alla regina Amesh, sua madre, il racconto del suo concepimento ad opera del dio Ammon:
“… quando nella tua grazia ti sei unito alla mia maestà
e la tua rugiada è penetrata in tutto il mio essere…”
c’è scritto.
E parla lo stesso Ammon:
“Colei che Ammon abbraccia è il suo nome
Sua la mia anima. Suo il mio Scettro
Suo il mio prestigio. Sua la mia corona
Affinché regni sui Due Paesi
E regni su tutti i viventi”
E ancora, per donarle prerogative maschili, ad Ammon fa dire ancora:
“Salute a te, Figlia mia, nata dalla mia carne
Immagine brillante uscita da Me
Tu sei un Re che reggi i Due Paesi
Sul trono di Horo, come Re.”
Il suo regno durò per quasi venti anni e fu, sicuramente, uno dei momenti più pacifici e felici di tutta la storia del popolo egizio.
Durante il suo regno, infatti, quella Regina fece erigere Templi ed Obelischi, organizzò spedizioni, istituì leggi in favore di donne, bambini e gente umile e fece molte altre cose ancora che, noi gente moderna diremmo, degne di un Sovrano Illuminato.
Le gesta di questa regina egizia, appartenente alla XVIII Dinastia, sono un capolavoro di astuzia, temperamento e capacità: una donna che oggi nessuno esiterebbe a definire emancipata.
Era figlia di Thutmosis I e della regina Amesh e fu fatta sposare al fratellastro Thutmosis II.
I due non ebbero figli maschi, ma solo due femmine, Thutmosis II, però, il suo erede, Thutmosis III, lo ebbe da una Sposa Secondaria, la regina Ese.
Alla morte di Thutmosis II, avvenute in circostanze non propriamente chiare, la regina Hutsepsut assunse la Reggenza del Paese, essendo Thutmosis III ancora troppo giovane, neppure decenne, per regnare.
Troppo poco, La Reggenza, per una donna come lei.
Huthsepsut era una donna intelligente, di grande carattere e assai ambiziosa. Era anche molto bella e possedeva un fascino irresistibile e grandi doti di diplomazia.
Sapeva leggere, scrivere, danzare e guerreggiare: accompagnava il padre nelle battute di caccia e, si dice, uccise il suo primo leone all’età di dieci anni.
Non si accontentò, dunque, del ruolo di Reggente e mise in scena uno di quegli intrighi di corte che solo una mente potenzialmente astuta ed audace poteva concepire.
Huthsepsut aveva creato intorno a sé una corte di funzionari fedelissimi, primo fra tutti, l’architetto Senmut, suo amante e, forse, padre di una delle sue figlie. Godeva anche del sostegno di buona parte del Collegio Sacerdotale e di quello delle più alte gerarchie dell’esercito: tutti pronti a reggerle il gioco.
Anche il principe erede aveva i suoi sostenitori, soprattutto nel corpo sacerdotale di Karnak, cui il faraone Thutmosis II aveva preferito affidarlo per tenerlo lontano dalle ambizioni della Regina, e che, inspiegabilmente, si astennero da qualunque azione.
La Regina aveva già raggiunto l’apice della sua potenza, ma sentiva il bisogno di legittimarla e di legittimare la decisione di costruire il “Milione dei Milioni di Anni”, il suo Complesso Funerario che tutti, ancora oggi, possiamo ammirare a Deir-el-Bahri.
Quale fu questo colpo di scena? Questo “miracolo”, come fu definito dai suoi seguaci?
Stava, un mattino, officiando in vesti di Sacerdote Supremo, nel Tempio di Karnak, quando, tra fulmini e tuoni e saette, il dio Ammon fece sentire la sua voce attraverso il naos (tabernacolo in cui era l’effigie divina) e la proclamò Figlia-Sua e Signora-delle-Due-Terre (Alto e Basso Egitto).
“Kem-hut-Ra (Colei che regna su Kem col favore di Ra) sarà il tuo nome – disse pressappoco la voce del Dio (probabilmente quella di un sacerdote che la sosteneva nel gioco) - Io mi compiacerò in te.”
Kem era un altro nome con cui si designava l’Egitto.
Da quel giorno la Regina, non più Reggente e con il titolo di Regina-Faraone, si mostrò in pubblico in abiti maschili e con la barba posticcia dei Faraoni.
Era già accaduto in passato che Regine avessero usurpato il trono, ma l’avevano fatto conservando sempre atteggiamenti femminili. Era la prima volta che una Regina nelle iscrizioni si faceva nominare al maschile.
Le statue la rappresentavano quasi sempre con shendit (gonnellino plissettato) e copricapo da Re: la nemesh (copricapo triangolare a righe) e il pshent (casco blu da combattimento).
I testi che fece incidere sulle pareti e i pilastri del Tempio Funerario raccontano tutta la storia.
Parlano della sua nascita divina, mettendo in bocca alla regina Amesh, sua madre, il racconto del suo concepimento ad opera del dio Ammon:
“… quando nella tua grazia ti sei unito alla mia maestà
e la tua rugiada è penetrata in tutto il mio essere…”
c’è scritto.
E parla lo stesso Ammon:
“Colei che Ammon abbraccia è il suo nome
Sua la mia anima. Suo il mio Scettro
Suo il mio prestigio. Sua la mia corona
Affinché regni sui Due Paesi
E regni su tutti i viventi”
E ancora, per donarle prerogative maschili, ad Ammon fa dire ancora:
“Salute a te, Figlia mia, nata dalla mia carne
Immagine brillante uscita da Me
Tu sei un Re che reggi i Due Paesi
Sul trono di Horo, come Re.”
Il suo regno durò per quasi venti anni e fu, sicuramente, uno dei momenti più pacifici e felici di tutta la storia del popolo egizio.
Durante il suo regno, infatti, quella Regina fece erigere Templi ed Obelischi, organizzò spedizioni, istituì leggi in favore di donne, bambini e gente umile e fece molte altre cose ancora che, noi gente moderna diremmo, degne di un Sovrano Illuminato.
MEDEA... il volto della vendetta
Feroce e tragica fu questa figura di donna, considerata fin dall’antichità come il “genio del male al femminile”.
La tradizione micenea la vuole al fianco dell’eroe Giasone, uno degli Argonauti partiti dalla Grecia per la Colchide, alla conquista del “Vello d’Oro”.
Medea lo aiutò sempre ed in ogni modo, con le sue arti magiche, non disdegnando neppure di far ricorso al delitto più efferato per spianargli la via.
Secondo il mito, erano state Minerva e Giunone, Protettrici dell’eroe, ad indurre Venere a convincere il figlioletto, Eros, a scoccare una freccia nel cuore di Medea affinché si innamorasse di Giasone e lo aiutasse nell’impresa.
Giasone sposò Medea promettendo, davanti agli Dei, di amarla per sempre e portarla con sé in Grecia.
Superate le prove imposte da re Eeta, padre di Medea, e staccato il Vello d’Oro dal ramo di quercia cui era attaccato, i due salirono sulla nave Argo per tornare in Grecia.
Eeta, però, contravvenendo ai patti, fece inseguire gli Argonauti fino alla foce del Danubio.
Per ritardare l’inseguimento e aiutare il suo uomo, Medea ricorse al delitto più atroce: attirò con l’inganno il fratellastro Apsirto, facendogli credere d’essere stata rapita e di trovarsi sulla Argo contro la propria volontà e lo fece uccidere per poi farne gettare i resti nel fiume e costringere gli inseguitori a rallentare per seppellirli.
Dopo varie peripezie, gli Argonauti giunsero in Grecia e i due amanti si fermarono a Corinto, dove Giasone fu fatto Re. Qui, però, l’eroe commise il suo più grave errore: si innamorò della bella Creusi, (o Glauce) figlia di re Creonte e la sposò, abbandonando Medea.
La vendetta della maga, nipote della ancor più potente maga Circe, fu tremenda.
Fingendosi rassegnata, l’implacabile Medea inviò il suo dono di nozze alla novella sposa: una corona d’oro e un manto bianco.
Appena, però, la sposa ebbe indossato la veste nuziale, questa prese fuoco provocandone la morte e quella di tutti coloro che si trovavano a Palazzo; Giasone si salvò solo perché riuscì a buttarsi giù da una finestra.
Non ancora soddisfatta, Medea giunse ad escogitare e mettere in atto la più orrenda delle punizioni per il marito infedele: quella di uccidere due dei figli avuti da lui.